Archivio mensile:febbraio 2015
Parasoli
Oltre la siepe che “il guardo esclude” il mondo naturale continua infinito.
Oltre i termini del pudore esiste l’incolto, il selvatico, lo stato brado.
Oltre le Colonne d’Ercole, i cippi d’Alessandro Magno: leoni e dragoni.
La terra dove arriva il tallone varcando il confine è ancora la stessa,
stessa è l’acqua vogando al di là dello stretto. Non ci son doganieri.
Una stanga mentale, spauracchi inventati, minacce pendenti.
Che invece è un luogo presigne[1], sublime, d’infinita espansione dell’essere mio.
Luogo d’esplorazione e meraviglia, di varia, mutevole, infinita consapevolezza.
Una frontiera taglia il mio passo nel mezzo, ma scompare quando sono al di là.
Al di là delle dicotomie, del divide et impera, dei segni di confine.
Quel passo ricompone il mondo in un tutto: il corpo a farmi da mappa.
Mi guardo la pelle indorata di sole, luce e calore fan rivivere il mondo.
Filtra un rosso bagliore da dietro le palpebre: la fonte ci accieca.
Come vivon le piante, gli animali e forse persino le pietre, così senz’altro anche noi.
Rosse come mele le gote, sana come bronzo la pelle, e sotto muscoli ed organi.
Fino a marzo rimane la neve sul lato del vago, dietro la siepe fitta di alloro,
l’erba vi cresce stentata e tardiva, non buttano i bulbi dei gigli, giacinti e nasturzi.
Ogni cosa si prende dalla luce il colore che meglio si addice: vivido, lucente.
Son pallide, malatine quelle costrette a viver nell’ombra, dietro una siepe di cinta,
non son così belle e virenti come l’aiuola assolata nell’arvense rigoglio.
Il sole fa bella ogni cosa e al brutto non ci vien da pensare, tutto è perfetto.
Il sole fa tutto mondo, dissecca le muffe e le melme, rasciuga umori e madori.
Pervio scorre il sangue nei vasi, non rallentato da cinte o stretto da lacci di gomma.
Ci scorre libera nel corpo la vita, dai pori trapassa il tepore, una brezza all’uopo rinfresca.
Nel suo giro molte siepi il sole raggira, persino il lato a tramontana.
Noi ci facciam parasoli.
[1] Latinismo: “al di là del segno, della misura; eccezionale, straordinario”
Divagando – Discorseggiando
(capita ai bambini ricchi di saggia incredulità)
Oggi vorrei essere un albero e non l’albero (che non è la stessa cosa). Vorrei far finta di essere assente nella presenza di una corteccia suprema che scaglia ogni analogia che forma attraverso il fatto di essere, mai come adesso, secolare. Vorrei che il fulmine mi centrasse e sconquassasse tutto quel che sono fuori, mandando le mille schegge nei dintorni del mondo odierno. Eccomi albero a sparpagliarle come parole sul tutto (appena colpito, basta chiedere), come petali a cadere dolcemente profumando, come proiettili ad infilare la propria ogiva qua e là deformandosi a vista o no.
Vorrei essere l’albero dai pochi rami secchi e scricchiolare con o senza intemperie. Mi farei udire per quello che sono, meravigliando sul momento le sue strane fonie (capita ai bambini ricchi di saggia incredulità) ed allo stesso tempo creando le facezie infinite delle proprie possibilità. Insomma parlerei al vento, solleticato d’esso, standomene con il petto proteso in balìa di ciò che mi pare e desiderando di non poter chiedere di meglio. Avrei la mia forma e non darei nell’occhio evitando ogni appartenenza e creando, a poco a poco, i cerchi della mia mappa che, come anelli, diventano cose speciali da infilarsi nelle dita a piacimento, oppure giochi di fumo che appesantiscono l’aria diventando sinistramente e tossico-logicamente parte d’essa. Non so, ecco sarei a piacimento. Il mio, sia chiaro.
Non conoscerei punti di vista ed avrei idea di tutto nella maniera più spiccia, ossia quella delle radici ben salde e conficcate sotto e movibili ovunque. Smuoverei il terreno senza ostacoli e mi nutrirei della pioggia soffrendo solo nella siccità unica alleata. Avrei le braccia sempre protese al cielo cercando un contatto celeste o un richiamo all’infinito che proverebbe il fatto della mia innocenza sulla terra. Ci sono posti al mondo dai quali non c’è via di fuga (ne sanno molto i girasoli) ma io darei l’idea di poterne fare a meno con tutti i fronzoli del mio atteggiamento statico. Sarei uguale a nessuno e simile a tutti. Sarei l’albero in questione (la testa è questione di alberi che dir si voglia o possa!) e tutti farebbero, di quest’ultima, l’unico discorso a vista su tutto quello che mi manca in una stagione o tutto quello che potrei concedere nell’altra. Mi farei i fatti miei ed a proposito di stagioni in corso, darei le parole all’unico Vivaldi che ne fischiettò un’opera intensa. Poi mi fermerei un attimo guardando perplesso altrove e vedendo, nel bailamme, tante cose più statiche di me nonostante le apparenze. Allora riderei e comincerei a scrivere i soliti anelli dandogli forme ancora più rotonde, cercando così di dissimulare qualcosa che non quadra.
P.S. Sen-ti-men-ta-li-tà: senti che sinusoidale!
Simone Belloni Pasquinelli
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.