Archivio mensile:agosto 2015
Orgogliosamente Nudi 2016, anticipazioni
Si dice che un progetto vada tenuto gelosamente custodito fino alla sua presentazione ufficiale e definitiva, ma le idee a cui sto lavorando sono, per me e a me, talmente belle e appassionanti che non mi riesce di tenerle segrete più a lungo di quanto abbia già fatto, visto che almeno due progetti sono ormai certi, eccovi pertanto un anticipo di quanto verrà preparato e proposto nel contesto del programma “Orgogliosamente Nudi” 2016, programma che sicuramente cambierà nome per meglio evidenziare quello a cui stiamo lavorando: non un mondo di sole persone necessariamente, obbligatoriamente nude, bensì un mondo dove ognuno possa stare sempre e comunque come meglio desidera, dove il nudo sia visto per quello che è ossia un modo semplice, lecito e naturale di vestirsi.
“Sulle tracce della storia”
(titolo provvisorio)
Dato il periodo dei cento anni dalla Grande Guerra, anche noi c’inseriamo negli eventi di recupero della memoria storica e, dopo l’interesse notato in occasione dei tre incontri già avuti (uno lo scorso anno e due quest’anno) coi manufatti di guerra, proporremo una serie di escursioni finalizzate all’esplorazione delle linee difensive bresciane (dal Gavia al Lago di Garda, attraverso l’Adamello) relative alla Grande Guerra. Saranno uscite di uno o due giorni, di vario dislivello ma tutte prive di difficoltà tecniche più vicine all’arrampicata che all’escursionismo e pertanto accessibili a chiunque abbia un minimo di allenamento al cammino in montagna.
“Marcia del trentacinquesimo”
(titolo provvisorio)
L’anno prossimo saranno trentacinque anni dall’inaugurazione del 3V, percorso a tappe lungo le creste a cavallo delle tre valli bresciane (Val Sabbia, Val Trompia e Valle Camonica) dedicato e intitolato a mio padre; ho ancora delle perplessità sulla durata in giorni del cammino, le tappe sarebbero nove, tipicamente viene fatto in sette giorni che sarebbero forse troppi per creare un bel gruppo. Dopo aver (quasi) scartato, per ovvi motivi, l’idea che più mi sarebbe piaciuta (farla in unica tratta continua, ovvero 2 giorni senza soste, abbassando le 52 ore di tabella a 48 ore di cammino, ma temo che sarei l’unico a partecipare, sebbene questo potrebbe dare un valore aggiunto all’evento e magari dargli un poco di evidenza mediatica), mi sto indirizzando verso i tre (17 ore di cammino die, dura ma non impossibile per un escursionista ben allenato), quattro (13 ore al giorno, meno dura ma comunque pur sempre accessibile solo a un escursionista ben allenato) o massimo cinque giorni (10 ore die, accessibile anche all’escursionista mediamente allenato, permetterebbe la sovrapposizione con la manifestazione in memoria fatta in Pezzeda, ma maggiori difficoltà organizzative e, credo, di partecipazione). Quasi certa, invece, l’intenzione di non appoggiarsi a strutture ricettive per le soste di tappa: vuole anche essere un’immersione nella natura e pertanto si dorme sotto le stelle.
Al duemila sedici allora, anzi, no, perchè non provate a venire con noi già nelle ultime residue e comunque ancora belle escursioni di quest’anno?
Vi aspetto, vi aspettiamo!
In ricordo di Silvano Cinelli – 2015
Ieri, 23 agosto 2015, si è rinnovato l’incontro in Pezzeda per ricordare mio padre e altri amici che hanno dato la vita per la montagna e in montagna. Quest’anno l’appuntamento era inserito ufficialmente nel nostro programma e, infatti, un piccolo gruppo di noi era presente. Sebbene il maltempo ci abbia costretti a camminare rigorosamente e debitamente coperti, il nostro spirito libero era comunque lo stesso. E’ stato un altro piccolo ma importante passo verso il riconoscimento di normalità alla nudità sociale, familiare e individuale.
Ringrazio personalmente gli amici che hanno voluto essere presenti e che si sono dovuti sorbire cinque ore, tre di andata e due di ritorno, di cammino imprigionati nelle loro vesti, una funzione religiosa, un lungo periodo di rifugio immersi tra persone a loro completamente sconosciute. Grazie Vittorio, grazie Angelo, spero vi siate comunque trovati bene e abbiate passato una buona giornata. Alla prossima.
Stavolta Giove pluvio si è voluto vendicare di tutte le volte che glie l’abbiamo fatta e ha rovesciato su di noi, sebbene con delicatezza, le sue lacrime e il suo fiato dandoci una giornata di nuvole e pioggia dalle prime ore del mattino al tardo pomeriggio.
Unica conseguenza, però, l’aver officiato la Sante Massa all’interno del rifugio anziché, come al solito, al suo esterno, ai piedi e dinnanzi la lapide che ricorda Silvano Cinelli. Per il resto i soliti tanti amici, quest’anno forse tornati quasi agli antichi fasti delle prime edizioni di questa semplice ma sentita manifestazione, non si sono certo fatti intimorire e sono comunque saliti alla Pezzeda, chi con la seggiovia e poi a piedi lungo l’ultimo tratto di strada o di sentiero, chi da uno dei tanti affascinanti percorsi che alla Pezzeda giungono dopo aver cavalcato i pendii montuosi che la circondano, e magari scavalcato anche il Monte Ario o la Corna Blacca.
Due gruppi sono stati, nell’ambito dei rispettivi ambiti operativi, specificatamente organizzati da due dei tre figli di Silvano, Carla ed Emanuele. Unitamente sono partiti di buon ora dal Maniva per percorrere il sentiero 3V, seguendone, nel tratto della Corna Blacca, la più semplice e veloce variante bassa. Nel gruppo anche Maria, moglie di Silvano, che intrepidamente tiene duro e ancora calca, con valente maestria e invidiabile resistenza, i sentieri dell’Alpe.
Poco dopo le undici il mitico Don Fabrizio Bregoli, parroco di Collio, officia la Santa Messa, segue l’intervento di Claudio Scotuzzi, Presidente del Gruppo Monte Maddalena e membro del gruppo di Coordinamento del Sentiero 3V, al termine il pranzo conviviale ottimamente preparato dagli amici del rifugio Balchì2, che da anni ci ospitano e ci rifocillano con la loro arte culinaria. Ultime chiacchiere e poi pian piano i convenuti si salutano e riprendono la strada della valle. Appuntamento al prossimo anno.
Grazie a tutti i presenti, grazie a Don Fabrizio, grazie agli amici del Blachì2, grazie a Vito Ronchi per il contributo organizzativo e grazie anche a… Giove pluvio. Grazie.
Maria, Emanuele, Valeria e Carla Cinelli, ai quali si uniscono tutti i nipoti, pronipoti e consorti vari quest’anno presenti al gran completo.
Escursione nella Tuscia (da Paolo D.A.)
Ricevo e volentieri pubblico questo racconto / relazione a cura di Paolo De Andreis.
Approfitto dell’occasione per ricordarvi che se desiderate pubblicare su questo blog dei vostri scritti (ovviamente conformi alla nostra linea editoriale) dovete solo inviarmeli per e-mail (attivate il contatto attraverso l’apposito modulo e riceverete in risposta l’indirizzo di posta elettronica del blog) allegando eventualmente due o tre fotografie in originale o ridimensionate ad una larghezza di 600 pixel. Ci riserviamo il diritto di apportare minime modifiche al testo, vuoi per uniformarlo alla linea editoriale, in tal caso prima della pubblicazione vi rimanderemo il testo corretto per la vostra autorizzazione a procedere, vuoi per eliminare errori sintattici e ortografici.
A soli 90 km da Roma ci siamo sentiti due veri esploratori, Giovanni ed io, immersi in una selva preistorica che sta ridisegnando un territorio che trasuda memorie di vite lontane.
Non avevo mai visto Giovanni fino a ieri, avevamo solo chiacchierato sul forum de inudisti.it, ma sono bastate due chiacchiere per scoprirci abitanti della stessa dimensione, con addosso la voglia di scoprire questo itinerario nel cuore dell’Etruria. Un percorso segnato dai fiumi Vesca e Mignone, che uniscono idealmente due insediamenti del neolitico successivamente abitati dagli Etruschi: Luni e San Giovenale. Una zona non lontana da Blera eppure selvaggia, un’area di alte rupi, muschio e tufo scolpito dagli antichi, di sole impietoso e di ombre di rovi, olivi, platani, querce e arbusti, di edere prosperose e crudeli, di vasche d’acqua limpida, distillata goccia a goccia dalla roccia, un’area in cui re Gustavo di Svezia molti decenni or sono finanziò una celebre e unica spedizione archeologica: a lui si deve l’emersione e la sopravvivenza fino ad oggi delle tracce di un’umanità che poi abbiamo nuovamente dimenticato.
Lasciate le macchine alla fine dell’asfalto, nei pressi di Civitella Cesi, nudi come la nuda selva in cui ci siamo introdotti, siamo ascesi al sito di San Giovenale, il primo insediamento su cui la vegetazione sta tornando ad avere la meglio; da qui, dopo una rapida chiacchiera con un inossidabile contadino della zona, che conserva e incarna la memoria di un luogo inabitato, abbiamo incontrato qualche tomba abbandonata ai secoli e poi, scendendo al Vesca, s’è iniziato a ciottolare, guadare, e inseguire Giovanni, che con abilità scoutesca superava enormi rocce di tufo, vicoletti tracciati da rovi e more, inaspettate radure di erba bruciata, siepi selvatiche con aperture su incalpestati e misteriosi trivi. La nostra minuscola mascotte canina ci seguiva con coraggio affidandosi solo di quando in quando alle braccia del suo babbo.
A lungo abbiamo seguito le rive del Vesca con la rupe sulla sinistra e la vegetazione da ogni altra parte, scendendo il fiume che ci avrebbe portati al Mignone e da lì a Luni. Ad ogni passo negli stretti passaggi tra i grandi massi muschiati, l’esperienza di un’armonia attiva con il bosco, una sensazione vitale di inesplicabile contatto con un’origine perduta. “Bellissimo” era la parola chiave della gazzella apripista che mi precedeva.
Ma quei sentieri sono ormai rarefatti, quasi cancellati dal tempo, e dopo qualche chilometro, un rapido ristoro e qualche chiacchiera sulle rocce bianche del fiume, abbiamo iniziato a recuperare la strada del ritorno. Addosso avevamo entrambi la sensazione che il fascino ineffabile del luogo sia legato a doppio filo con la sostanziale assenza della solita umanità caciarona. Tanto che, superato il torrente, risaliti verso San Giovenale, quando pochi minuti mancavano alle automobili, certo non ci aspettavamo di incontrare qualcuno. Ma… ecco una coppia di ragazzi che scende lungo l’unico fangoso passaggio, un incontro concluso con uno scambio cortese di saluti e che, speriamo, possa averli ispirati per il loro futuro.
Tutto bene dunque in questa prima escursione nella Tuscia più selvaggia, tutto bello, sì. Giovanni ed io ci lasciamo con una stretta di mano e la promessa (desiderio) di tornare da queste parti non appena possibile, magari tentando il percorso dall’altro lato, tra di noi o con nuovi amici.
Abiti in zona e vuoi, da nudo o da vestito, contribuire alla realizzazioni di ulteriori escursioni? Scrivimi (NdR: al vero autore dell’articolo ovviamente, Paolo De Andreis) e organizziamo!
Prandini 2015, un altro splendido soggiorno
Se il viaggio di una sola giornata può essere comunque gratificante, lascia pur sempre l’amarezza del frugale assaggio, il desiderio di esplorare ogni più recondito millimetro del monte. Certo è possibile ritornare con perseveranza a più riprese nello stesso luogo, ma soggiornarci a lungo dona qualcosa che la visita frettolosa mai potrà dare, quantomeno non con la stessa intensità. Il lungo soggiorno, infatti, crea il più profondo incontro tra noi e l’ambiente e ci regala il tempo di vivere al ritmo della natura: alzarsi quando il sonno lascia spazio alla veglia, mettersi in marcia quando il corpo si sente pronto, camminare senza l’assillo dell’orario che incombe, fermarsi ogni qualvolta se ne senta il desiderio, mangiare quando la fame lo comanda, osservare per tutto il tempo necessario ad assorbire la visione dell’intorno, ascoltare a lungo il rumoroso silenzio che ci circonda, abbandonarsi natura alla natura.
Così, sebbene di soggiorni in montagna ne abbia fatti tanti, ecco perchè ancora li desidero, li cerco, li invento, li propongo, li condivido con amici e familiari. Già, li condivido, pur essendo un convinto sostenitore del viaggio solitario, nel contempo apprezzo il diverso piacere di viaggiare in compagnia. Si diverso, perché il gruppo non aggiunge ne toglie nulla al viaggio, non lo fa più bello o più brutto, semplicemente lo rende diverso, aggiungendo esperienze ad esperienze, unendo al vivere soli il vivere insieme. Stare insieme più giorni magari chiusi nell’angusto spazio di una tenda, di un bivacco, o anche in quello più o meno ampio di un piccolo rifugio alpino incustodito, con l’onere di adempiere a tutte le esigenze di vita individuale e sociale, mette in evidenza i diversi caratteri, esalta comunioni e anche disgiunzioni, identifica personaggi e atteggiamenti, aspetti che, da scrittore, mi piace osservare e analizzare.
Nel tempo ho imparato a identificare e, al di là delle apparenze, apprezzare ogni tipologia caratteriale: il generale, che ordina anziché chiedere, che impone anziché suggerire, che pone se stesso sempre avanti gli altri; il caporale, che supinamente ubbidisce ai comandi del generale, che mai propone e si propone, che indirettamente accentua il ruolo del generale; il soldatino, che, più o meno silenziosamente, ubbidisce ai comandi per dovere o per amore di gruppo; l’indifferente, che tacitamente si adegua a qualsiasi decisione; il determinato, che sempre oppone il proprio parere a quello degli altri e male sopporta la presenza di un generale; il taciturno, che si tiene in disparte vivendo in se stesso le emozioni del soggiorno; il catalizzatore, che senza mai imporsi lega attorno a se stesso il gruppo; il chiacchierone, mai in silenzio anche a costo di spararle grosse o di parlare scontatamente; il monopolizzatore, che indirizza ogni discorso su se stesso e/o parla a ritmo talmente serrato da non lasciare spazio ad altri; il burlone che volge in scherzo qualsiasi discorso dal più banale al più serio; il commediante il cui parlare è sempre accompagnato da segnali non verbali e verbali talmente enfatizzati e sostenuti dal chiedersi se parla per convinzione o per ruolo, per recitazione; l’interiorizzante, che si limita ad ascoltare producendo pochissimi, seppur interessanti, interventi; il condizionato, la cui comunicativa è più che altro basata su slogan, stereotipi, preconcetti, siano essi politici, religiosi o di qualsiasi altra natura. Qualsiasi sia il proprio carattere, mediarsi con gli altri è parte del gioco, è parte dell’esperienza del soggiorno, è vita del quotidiano trasposta nella vita del momento, è insegnamento e, almeno per taluni, apprendimento, è, per me, fonte ispiratrice per considerazioni, ragionamenti e scritti.

Foto Emanuele Cinelli
Tutto questo è parte della mia lunghissima esperienza di montagna ed anche del soggiorno di “Orgogliosamente Nudi 2015”, un soggiorno finalmente condito da condizioni ambientali ottimali e da un discreto stato meteorologico. Dopo una prima visita di fine settimana fatta nel 2013 con neve a metà valle e parzialmente bagnati dalla pioggia, dopo la seconda salita con un soggiorno che doveva essere di una settimana poi ridottosi a cinque giorni per la pressoché continua e quotidiana pioggia battente, quest’anno, finalmente, un soggiorno senza ostacoli: cinque giorni che cinque restano; una giornata di pioggia che apporta solo un dovuto momento di riposo; tre escursioni previste che vengono tutte compiute; quattro tranquille serate; quattro notti almeno in parte stellate; chiacchiere e allegria; lavori e divertimento; fatica e avventura; colori, odori, sensazioni legati a questa meravigliosa valle di Braone e alla gemma preziosa in essa immersa che è il rifugio Prandini. Ma ripartiamo dall’inizio.
Memore della grande fatica fatta lo scorso anno, stavolta ho voluto fare le cose per bene: innanzitutto sono andato a visionare l’accesso dalla Bazena per accertarmi che fosse realmente semplice e poco faticoso come mi era stato riferito; poi ho effettuato io stesso l’acquisto della maggior parte dei viveri comuni necessari; infine, in due distinti viaggi, ho portato al rifugio quasi tutti i viveri acquistati. Lo scopo quello di consentire ai partecipanti un cammino semplice e leggero ponendo nello zaino solo il poco che restava: qualche indumento, il sacco lenzuolo, i semplici e limitati viveri per la colazione e il pranzo. Buona intenzione ma…
Siamo al giorno di partenza e ci ritroviamo tutti al parcheggio della Bazena, nonostante i miei acquisti e le mie raccomandazioni qualcuno ha comunque esagerato con il carico e mi trovo davanti zaini improponibili. Vada per l’amico fotografo che si è caricato a spalle l’attrezzatura necessaria alle sue specifiche esigenze, incomprensibile, invece, chi si è portato appresso un esagerato quantitativo di viveri supplementari personali (io ci sarei campato per un mese intero). Per fortuna il sentiero è decisamente poco faticoso: alla ripida salita inziale, che, però, addolciamo con una comoda variante, segue un lunghissimo tratto quasi pianeggiante che permette di recuperare le forze prima di affrontare la salita al passo del Frerone, anch’essa resa comunque comoda da un sentiero che alterna brevi strappi a tratti pianeggianti, permettendo un soddisfacente guadagno di quota e contemporaneamente il contenimento della fatica; da qui al rifugio è comoda discesa, pochi tratti ripidi e rovinati e molto cammino in piano.
Come previsto saliamo regolari e arriviamo alla malga Val Fredda dove la strada sterrata e la salita finiscono, le energie sono praticamente inalterate e senza sosta imbocchiamo il sentiero che con lungo pianeggiante percorso aggira sulla destra tutta la verde conca della Val Fredda. Inizia a far caldo e il sudore imperla il nostro viso, molto avanti a noi una sola persona sta anch’essa salendo: possiamo liberarci dall’inutile fardello delle vesti e donare al corpo la sua naturale respirazione. Dopo la breve pausa, sfruttata anche per reidratarsi, riprendiamo il cammino: in breve siamo alla base del monte Mattoni, una discesa conduce al Passo di Cadino, poi il traverso sotto la Cima Cadino, qui improvvisamente ci si para davanti la persona che avevamo visto salire, siamo nudi ma a questo punto meglio restare come siamo, normalmente camminare per la nostra strada e salutare. Veniamo cordialmente e tranquillamente ricambiati, senza nemmeno la più piccola espressione di sorpresa o di disagio, un sorriso e un saluto che ci riconfermano quanto ormai abbiamo compreso e che diventa quasi obsoleto ripetere: la normalità è la chiave di volta, una nudità portata con semplicità e tranquillità diviene nuda normalità.
Ancora una decina di minuti ed eccoci, con ripido breve strappo, al Passo di Val Fredda, stretta forcella che ci immette nell’ancor più verde e ampia conca dell’alta valle di Cadino. Gli zaini iniziano a far sentire il loro effetto, alcuni di noi lamentano dolori alle spalle e sui visi appaiono i primi segni della fatica, serve una pausa più sostenuta e leggera: “zaini a terra, sedetevi, bevete e mangiate qualcosa, ci si ferma una decina di minuti”. Stiamo per passare dal versante in ombra a quello al sole e, vista la tersa giornata, meglio approfittare della pausa per spalmarsi il corpo con un velo di crema protettiva ad alto fattore, poi possiamo ripartire. Breve ripida discesa e si riprende a camminare in piano tagliando il versante sud orientale del Monte Frerone. Qui il terreno è molto ondulato e alterna piccole vallette a dolci crinali, si procede con un continuo susseguirsi di curve. Da una valletta cosparsa di massi una piccola marmotta ci guarda incuriosita, ci fermiamo ad osservarla e fotografarla, stranamente se ne resta ferma immobile, riconosce in noi degli amici: sarà forse per la nostra naturale nudità? Beh, certo che no, in altre occasioni le abbiamo viste scappare, eppure… eppure è bello pensarlo, è piacevole immaginarsi che attraverso la nudità si possa noi meglio avvicinare gli altrettanto nudi animali del monte, e forse un poco è vero: nel confronto con i tanti anni di montagna vestito, ora posso contare un minor numero di fughe, mai m’era capitato di trovarmi attorniato dalle marmotte che invece di scappare seguivano parallelamente il mio cammino e a distanza ravvicinata. Con questi pensieri nella mente riprendo e faccio riprendere il cammino, il rifugio è ancora lontano e dobbiamo ancora superare un discreto dislivello.
Ecco il bivio, una freccia segnaletica lo identifica in modo inequivocabile, senza indugi imbocchiamo la nuova traccia, abbandoniamo il comodo piano e, decisi, ci buttiamo sulla salita. S’inizia di botto prendendo il ripido pendio proprio lungo la linea di massima pendenza, poco dopo, però, la traccia piega a destra e prosegue lungamente a mezza costa, zigzagando tra lisce placche rocciose. Lontano avanti a noi la Cima di Terre Fredde domina l’orizzonte, mentre sulla destra, dietro il Passo della Vacca, ecco apparire sempre più imponente il Cornone del Blumone. Un ultimo breve ripido strappo e ci accoglie una larga sella erbosa, lo sguardo cade sulla Valle di Braone, nette si distinguono le verdi praterie delle Foppe di Braone, sopra di esse gli altrettanto verdi declivi delle Somale di Braone e, dietro a questi, la grigia pala rocciosa del Pizzo Badile svetta solitaria ornata da un bellissimo cielo azzurro. Folate d’aria fredda attraversano il valico, meglio procedere oltre e fermarsi a mangiare poco più sotto.
Ritemprati nello stomaco e nelle gambe, ricarichiamo a spalle gli zaini e riprendiamo il cammino. Man mano che scendiamo la meraviglia appare negli occhi e nelle parole dei miei compagni che ancora non avevano visto questi posti. Velocemente arriviamo ai piedi della discesa, alla nostra destra la grigia distesa sabbiosa una volta forse occupata da un lago, poi verde distese pianeggianti solcate dalle sinuose curve del torrente s’intonano contrastanti coi mille puntini colorati dei fiori. Breve discesa ed eccoci al “Zöck dè la Bala”, altro verde pianoro costellato di fiori. Seguendo il fondo della valle, arriviamo nella vasta piana centrale dove le erbe e i fiori si mescolano alle placche di roccia in un ancor più affascinante contrasto di colori. All’improvviso ci appare vicinissimo il Gheza, vecchie case di caccia ora adibite a rifugio. Sono presidiate solo nel fine settimana per cui passiamo senza rivestirci: nuda normalità va bene, per ora, però, meglio rivestirsi quando si passa vicino a strutture abitate, qualsiasi esse siano. Siamo ormai prossimi alla nostra meta, dieci minuti di discesa per placche rocciose e canalini erbosi ed ecco sotto di noi i tetti rossi del rifugio che, con grande soddisfazione di chi si era preoccupato più della pancia che del peso dello zaino, raggiungiamo velocemente.
Sono passate quattro ore da quando abbiamo lasciato il parcheggio delle auto, è metà pomeriggio e avremmo tutto il tempo per sistemarci senza fretta, godendoci l’ultima parte della giornata e rilassando la muscolatura in vista dei prossimi impegni. Invece no, qualcuno, che ancora non riesce a liberarsi dal terribile virus dell’odierna frenesia del quotidiano, quasi subito inizia a dare ordini: “ragazzi bisogna accendere la stufa”, “l’acqua del bagno è troppo fredda mi serve dell’acqua calda per lavarmi”, “non c’è l’accendino, cercate l’accendino”. Cavolo, siamo in montagna e la montagna va presa con spirito di adattamento e sopportazione, siamo in un rifugio di montagna e il rifugio di montagna va vissuto per quello che è, non trasformato nella propria abitazione di fondo valle; in montagna si devono dimenticate le idiosincrasie, le paure, la fretta dell’odierna vita quotidiana, la montagna dev’essere uno scarico mentale e fisico, un momento di pace e di calma. Fortunatamente la disponibilità dei partecipanti sminuisce l’impatto della questione e l’ora della nanna arriva senza ulteriori fattori stressanti, il sonno provvede a riportare la pace e il silenzio, a ritemprare il fisico, l’animo e lo spirito.
Siamo a giovedì mattina, sono il primo ad alzarmi e, come mio solito, mi alzo anche molto presto, con calma faccio colazione e poi, in attesa che venga l’orario di partenza per l’escursione giornaliera, vado ad esplorare il percorso che dovremo fare domani: nell’intero tratto di salita è su terreno vergine, privo di sentiero e di ogni traccia di passaggio, ne conosco solo un piccolo pezzo, quello iniziale, quando porto altre persone se possibile preferisco conoscere la strada che farà loro fare. Salgo veloce rendendomi conto che il mio allenamento sta rapidamente crescendo, le nuove scarpe si dimostrano all’altezza delle vecchie, anzi vanno anche meglio, d’altra parte sono una loro evoluzione. Senza particolari problemi trovo subito un percorso ideale che svicola tra le placche rocciose evitando qualsiasi passaggio complicato: “ottimo, domani potremo fare un’escursione in tutta tranquillità e sicurezza”. Scendo per lo stesso percorse, ehm, stesso, si fa per dire: in mezzo a questo mare di rocce ed erbe è difficile ritrovare i riferimenti visivi che avevo preso in salita. Rientrato al rifugio trovo gli amici ancora intenti alla colazione, il sole è già alto e, come previsto fin dal momento dell’organizzazione, l’aria frizzante del primo mattino sta lasciando il posto a temperature più morbide.
Ore dieci, anzi dieci e qualcosa perché c’è chi il ritardo ce l’ha nel sangue, non importa, oggi non importa: abbiamo tempo e chi ha tempo prenda tempo. Ore dieci e qualcosa, dicevo, si parte. S’inzia scendendo, la meta prevista è il Corno della Vacca e la mulattiera di accesso parte molto più in basso, sotto la piana della Malga della Foppe di Sotto. Due gocce d’acqua cadono dal cielo: mannaggia questa piana è per noi malefica, ogni volta che passiamo di qui il cielo s’intristisce e ci lacrima addosso. Imbocchiamo la mulattiera, un vecchio ricordo del quindici diciotto, la prima parte sale nel bosco, risulta evidente anche se a tratti inerbata o addirittura invasa da qualche cespuglio. L’incontro con una bella vipera movimenta il cammino: me la trovo tra i piedi, mi blocco, lei resta immobile avvolta su se stessa a formare una stretta esse, non posso parlare la farei scappare e io la voglio fotografare; mentre con una mano lentamente estraggo la macchina fotografica, con l’altra mano segnalo a chi mi segue di fermarsi e invece… invece viene avanti, mi chiede che c’è, non posso rispondere e mi limito a riagitare la mano nel segno dell’alt, vattelapesca, viene ancora avanti, mi affianca, guarda e parte un urlo pazzesco, mannaggia la vipera, con un soffio d’irritazione, si mette in fuga e riesco a riprenderne solo la coda che svanisce nell’erba. “Aargh, ma che cavolo, se segnalo di fermarsi, fermatevi! Sono anni che cerco di fotografare un vipera”. Va beh, appuntamento rimandato, riprendo il cammino. Chi mi segue riparte a fatica preoccupato che la vipera possa vendicarsi del sonno così bruscamente interrotto, balzare fuori e morderlo. Ci avviciniamo alla vetta del corno ma purtroppo la mulattiera diviene sempre più rovinata e ad un certo punto svanisce quasi completamente, fatta una perlustrazione verso l’alto mi rendo conto che procedere potrebbe risultare a qualcuno assai complicato e pericoloso per cui decido che la nostra salita termina qui. Ci giriamo e torniamo verso il basso a cercare un posto dove pranzare. La giornata prosegue e termina senza altre avventurose sorprese, al loro posto il piacere d’avere con noi nel dopocena i due pastori che stanno dimorando nelle stanze poste sotto il rifugio. Non parliamo di nudismo ma, uno di loro ci ha visti, ci ha incontrati, almeno lui è certo conosca il nostro stile di vita e di escursione, conosca e accetti senza discuterlo ne valutarlo. D’altronde professiamo il nudo come normalità e perché mai dovrebbe essere necessario parlare sempre e con chiunque di un qualcosa che è normale? Col senno di poi ritengo che abbiamo comunque sbagliato a non parlarne: forse, così facendo, non abbiamo comunque prodotto un segnale di vergogna, di sicuro, però, abbiamo perso una buona occasione per capire il loro reale pensiero e per tranquillizzarci in vista del futuro inevitabile contatto con loro.
Venerdì mattina, alle sei sono in piedi, la pioggia forte ha caratterizzato la notte, mi preoccupa l’erba bagnata, anche perché il cielo è coperto da alcune nuvole e il sole fatica a riscaldare il suolo. Alle dieci partiamo, siamo in tre perché gli altri hanno deciso di prendersi una giornata di respiro e defaticamento. L’erba non è del tutto asciutta ma nemmeno troppo bagnata, si riesce a camminare senza grossi problemi, solo un breve ripido tratto sul fango si rivela oggi ostico, provvidenziali alberelli ci aiutano nel suo superamento. Pur non seguendo esattamente lo stesso percorso, uno a uno ritrovo tutti i riferimenti presi ieri e senza intoppi siamo alla Porta di Stabio, purtroppo le nuvole coprono il vasto panorama che da qui si potrebbe osservare. Scendo sul versante Stabio per verificare, in vista di un futuro passaggio, il canalone attrezzato con catene: risulta breve e banale, ottimo. Le solite foto di rito e poi scendiamo per il sentiero segnalato a cercare un posto riparato dall’aria dove fermarci per mangiare. Nell’alternanza di grigie nuvole e sprazzi d’azzurro che mi danno la certezza d’evitare la grandinata qua presa lo scorso anno, con calma mangiamo e riprendiamo il cammino rientrando al rifugio. Stasera avrebbero dovuto raggiungerci altri quattro amici, purtroppo nessuno di loro salirà, due forse arrivano domani mattina, una mattina che la notte stellata promette buona.
Sabato mattina ore sette, cielo plumbeo, minaccioso, a lungo l’osservo, alle otto me ne torno a letto: “oggi è meglio dormire”. Verso le dieci mi risveglio, dalla finestra entra la luce del sole, esco e la giornata sembra volgere al bello, ancora nuvole nere all’orizzonte mi preoccupano ma forse ci lasceranno stare. Vado nell’unico luogo dove il cellulare prende il segnale ed ecco il messaggio di Attilio: “stiamo arrivando, partiti ore 10 dalla Bazena”. Bello, splendidi, stanno arrivando. Rapidamente decido: il gruppo salirà lungo il percorso previsto per oggi, la mulattiera di Cima Galliner, io andrò incontro ad Attilio e Paola per aiutarli nel trasporto dei viveri di rinforzo ed eventualmente, se se la sentiranno, per guidarli verso il gruppo. Velocissimo salgo verso il Passo del Frerone dove conto di incontrarli, a un terzo di strada inizia a piovigginare, osservo il cielo alle mie spalle, le nuvole nere sono salite veloci e hanno ricoperto l’intera vallata, verso il passo altre nuvole ancora più scure promettono assai male. Pochi minuti e pochi metri dopo, infatti, la pioggia si fa forte, metto il coprizaino e indosso, sulla sola maglietta, la giacca impermeabile. Incrocio una signora che, imbacuccata in un’ampia mantella arancione, sta scendendo verso il Gheza. Giungo al passo con ben mezz’ora d’anticipo sul previsto, non c’è nessuno, solo un’aria fredda e nebbia, mi affaccio sull’altro versante, il sentiero che scende verso il Cadino è vuoto. Qui non posso stare, devo scendere. Mi porto sul piano sottostante e mi affaccio sull’altra metà del sentiero, due puntini colorati spiccano tra il verde dell’erba, non possono che essere loro, sono ancora bassi per cui scendo ancora. Non mi riconoscono se non quando siamo a pochi metri, sono infreddoliti ma decisi, d’altra parte a questo punto tra l’andare avanti e il tornare c’è ben poca differenza. Mi carico nello zaino il pane, altro non mi vogliono dare: troppo ben stipato nei loro zaini, troppo freddo e troppo bagnato per fermarsi qui a fare il trasbordo. Rincuorati dalla mia presenza gli amici riprendono il cammino con nuova energia e in breve scavalliamo nella valle di Braone, la pioggia ci dona un poco di respiro, il vento si calma e i corpi si riscaldano leggermente. Gli amici possono così ammirare la bellezza di questo luogo e gustarsi la discesa verso il rifugio, dove, come da tempo m’immaginavo, troviamo il gruppo rientrato velocemente alle prime avvisaglie di pioggia. Il pomeriggio passa tra giochi di carte, chiacchiere e l’arrivo della signora che avevo incontrato nella mattina, è una donna francese che, da sola, si è fatta un lungo giro attorno all’Adamello, ora sta scendendo a valle per prendere il treno e tornare a casa. Mentre parliamo con la signora francese sentiamo aprirsi la porta d’ingresso: sono arrivati tre giovani, due ragazzi e una ragazza, che stanno salendo al Gheza per un breve soggiorno. A tutti offriamo delle bevande calde, un asciutto riposo e un momento di convivialità: ne approfittiamo per parlare, con tutta naturalezza e spontaneità, del nostro stile di vita e d’escursione. La risposta, come ormai abbiamo più volte sperimentato, è assolutamente positiva, anzi, ne scaturiscono anche domande interessate. In serata lauto pasto, un’ultima cena che, grazie agli amici saliti pur nelle avverse condizioni, fruisce di nuova linfa vitale e ci permette di banchettare più lautamente che nei giorni precedenti, giusta preparazione alla fatica di domani: se il tempo sarà bello invece di scendere direttamente al Bazena, lo faremo per il sentiero che oggi non abbiamo potuto fare.
Domenica mattina, cielo limpido, nessuna nuvola visibile sui quattro lati dell’orizzonte, alle sette il mio zaino è pronto per il ritorno a valle. Attendo il risveglio degli altri. Puliamo il rifugio, controlliamo che tutto sia a posto, bombola del gas chiusa, interruttore della luce abbassato. Lasciamo al pastore il cibo deperibile avanzato, quello non deperibile lo poniamo nella cambusa del rifugio, qualcuno preferisce rimetterselo nello zaino, poi in marcia. Accompagnati dal tepore di una bella giornata, ritemprati dalla vivida luce del sole, velocemente saliamo alla Forcella di Mare. Imbocchiamo la mulattiera di guerra che, immane lavoro dei nostri alpini, con tanti tornanti dolcemente sale verso la base di Cima Terre Fredde, qui giunta volge a sinistra e risale alla vetta della limitrofa Cima Galliner, dove, preziosi documenti storici di vivida pietra, ancora sono visibili alcune postazioni di sentinella e relative opere di trincea. Splendida qua sopra la vista sul sottostante frequentatissimo Lago della Vacca, la vastità dell’areale nasconde i rumori che attorniano il frequentatissimo rifugio Tita Secchi. Purtroppo nuvole grigie arrivano a coprire il cielo e si alza una lieve brezza fredda, meglio ripartire.
Convinto che ora si scenda pressoché direttamente indi velocemente al rifugio mi infilo i pantaloncini e suggerisco ai miei compagni di fare altrettanto. Invece il sentiero segnato compie un largo giro, prima lungo il crinale che porta al Passo di Laione e da qui all’omonima cima, poi traversando verso il Passo del Blumone. Amici ci aspettano in Bazena, non abbiamo tempo per dilungarci lungo questo percorso, così ad un certo punto individuo e percorro una linea che, il più possibile per erba, ci possa portare direttamente verso il rifugio. Purtroppo verso la fine un alto salto roccioso ci sbarra la discesa verso il lago e siamo costretti a risalire una breve ma ripidissima ganda per raggiungere la mulattiera del Blumone. Giunti al rifugio qualcuno vorrebbe prendersi un caffè ma siamo in forte ritardo sulla tabella di marcia, il rifugio è affollatissimo, dobbiamo continuare il cammino. Salita al Passo della Vacca, lungo traversone sotto il versante meridionale del Frerone, lo strappo del Passo di Val Fredda, il traverso sotto le pareti del Monte Cadino e del Monte Mattoni, malga Val Fredda, la strada che ripidamente scende al Bazena e… ma che cavolo succede laggiù? Si sentono canti alternati a slogan di cui ancora non percepiamo il senso, poi vediamo una marea di persone attorno al parcheggio, tra queste divise di ogni genere: polizia provinciale, forestale, carabinieri. Che succede? Qualcosa avevo percepito dalle parole di una signora incontrata al Passo di Val Fredda, la conferma dalla voce dell’amica Mara che incontro poco prima del parcheggio: lo scorso anno un pastore aveva malauguratamente ucciso a bastonate un cane, ora gli animalisti si sono radunati qui per protestare e chiedere l’analogo trattamento per il pastore (forse non si rendono conto che così facendo si rendono perfettamente uguali al pastore). Dall’altra parte del parcheggio, nell’area pic nic, un ben più nutrito gruppo di pastori si frappone ai manifestanti, in mezzo le forze dell’ordine ad evitare una rissa che, viste le forze in campo e la loro composizione, certamente risulterebbe ben più favorevole ai pastori che agli animalisti. Brutta scena, esemplificativa di come certe esasperazioni siano solo dannose per la causa che vorrebbero sostenere: se dalla parte dei pastori si alzano solo ironici canti della tradizione popolare, dalla parte degli animalisti sono continue parolacce, offese gratuite, considerazioni di una consapevolezza che risulta essere più presunta che effettiva, più deficitaria che completa. Su suggerimento dell’amico Vittorio, vegano e vero animalista, abbandoniamo velocemente la zona per portarci al vicino rifugio del Passo di Crocedomini dove festeggiamo il suo imminente compleanno e ci salutiamo in attesa del prossimo incontro.
29, 30, 31 luglio, 1 e 2 agosto 2015 – Rifugio Prandini in Val di Braone, Braone (BS)
Emanuele, Pierangelo, Alessandro, Andrea, Marco e Francesca per i cinque giorni. Attilio e Paola per gli ultimi due. Mara e Vittorio che domenica sono venuti ad aspettarci in Bazena.
Grazie agli amici che mi hanno accompagnato in questa nuovo momento di montagna vissuta, grazie alla disponibilità che nuovamente ci è stata concessa dall’amico Piero che si occupa del rifugio Prandini, grazie a tutta la Commissione Rifugi per lo splendido lavoro che fanno, grazie ai pastori che hanno condiviso con noi alcuni momenti di questi cinque giorni, grazie a chi sabato si è soffermato da noi e, con le sue parole, ha consolidato in noi la consapevolezza del nudo normale e la speranza di un futuro dove i vestiti possano essere ovunque e comunque facoltativi. Grazie a questa splendida valle, grazie al Sindaco e agli abitanti di Braone per la cura che gli danno, grazie alla montagna. Grazie!
Sono stato a una festa
All’interno del rifugio pentole al fuoco, proditoriamente gestite dall’amico Piero, preparano un eccellente arrosto di agnello. Sull’atrio esterno stanno invece cuocendo, a più riprese, una bella polenta. Sono appena arrivato, mancano ancora molte persone, due ragazzine sedute su di una panca in legno intonano uno dietro l’altro melodiosi canti di montagna, attorno a loro persone che ascoltano, altre che chiacchierano, qualcuno sta grattugiando del formaggio. Si respira aria di festa, l’azzurro del cielo terso e il verde della rigogliosa natura adeguatamente contornano la scena.
Montagne, tutt’intorno si alzano montagne, montagne verdi, montagne grigie, montagne nere, montagne che sono nel cuore di questa gente, ne dominano o ne accompagnano il vivere quotidiano, ne sono duro terreno di lavoro oppure ruvido campo di ludici giochi. Non è la classica festa cittadina, la festa a cui accedere con poca fatica, questa è una festa di montagna, e una montagna seria, un luogo isolato a cui si accede solo con ore di cammino, lo si riconosce nei visi delle persone, visi arrossati dal sole, resi duri dall’aria di montagna, impreziositi dalla gioia di questo momento che unisce al piacere di ritrovarsi quello d’averlo fatto attraverso la fatica delle gambe.
Sono arrivato presto, in piena solitudine sono salito per un favoloso sentiero che incredibilmente giace abbandonato. Seguendo segni di vernice a volte sommersi dall’erba mi sono inebriato dell’immensa soddisfazione che nasce dal trovare la via nel mezzo di una vastissima conca fatta di placche rocciose alternate a piani erbosi e fasce di bassi cespugli, superando incolume le trappole di un ambiente selvaggio, gustando lamponi donatomi della natura, meditando sull’esilità della nostra figura a fronte della vastità delle montagna. Pian piano mi sono avvicinato alla meta, come mio solito ponendomi natura nella natura, esponendo al monte tutto me stesso così come il monte a me espone tutto se stesso, nessuna barriera, nessuna separazione, mentale, morale, fisica. Quest’oggi, però, ad un certo punto devo necessariamente indossare la veste, pantaloncini e maglietta, esili, sottili, ma, per il mio corpo ormai rieducato alla massima sensibilità e libertà, comunque fastidiosa corazza. Non per il freddo, non per le intemperie, non per evitare abrasioni da folta vegetazione o ruvida roccia, no, devo rientrare nel guscio convenzionale per adeguarmi al contesto sociale in cui sto per immergermi. Lo faccio volentieri, l’ho voluto io stesso, sono sicuro che la mia sofferenza sarà adeguatamente ricompensata.
Si approssima l’ora del pranzo, gli arrivi si ripetono con maggiore frequenza, la conta dei posti a tavola si deve ripetere più volte, i tavoli interni non bastano, ragazzi che giocano sul duro tavolo in pietra posto all’esterno devono lasciare spazio a chi apparecchia. Ancora pochi minuti e arriva l’invito a prendere posto, invito stranamente immediatamente recepito e messo in atto. Si, stranamente, per me stranamente: ho partecipato a molte feste e sempre, ripeto sempre, anche in quelle come questa alpine, il momento di mettersi a tavola vedeva le persone disperdersi in nuove chiacchiere, ritardando talvolta a dismisura il momento del convivio. Anche in questo le persone con cui oggi mi trovo piacevolmente si distinguono, non si perdono in inutili lazzi nel momento in cui è opportuno rispondere prontamente e unitamente al comando, no, pochi secondi e tutti sono seduti a tavola, stretti fra loro eppur senza commenti, senza proteste, senza litigi sul posto da occupare. Pronti e via, si mangia. Velocemente Piero serve a tutti la loro porzione di agnello e polenta, alcune bottiglie di vino fanno da degno contorno al prelibatissimo cibo, complimenti al cuoco, non è certo facile prodigarsi così efficientemente in una cucina d’emergenza qual è quella di un rifugio di montagna. Velocemente i piatti si svuotano e altrettanto velocemente vengono nuovamente riempiti, all’agnello si unisce del formaggio fatto ammorbidire su una vecchia bellissima stufa a legna, in tavola pezzi di formaggio per chi lo preferisce crudo, ancora fette di salame rimaste dall’antipasto. E mille piacevoli chiacchiere, tra una morsicata e l’altra, senza prevaricare la magnata ma accompagnandola dolcemente. Si chiude con caffè e grappa, dolcissima e profumatissima grappa malcelata in una bottiglietta d’acqua e venduta come miracolosa acqua di fonte: “ne bevi un sorso all’anno e campi cent’anni” recita amabilmente Piero.
Il pranzo è finito, ci si sposta nuovamente all’esterno, ancora piacevoli chiacchiere, si alza una simpatica diatriba sul nome di cime e passi che, più o meno nascostamente, sovrastano il rifugio. Alcuni si muovono per rientrare a valle, anche per me giunge l’ora di ripartire, saluto Piero, saluto la sua affabilissima moglie, saluto le altre persone oggi conosciute, calzo lo zaino e a passo corsaiolo prendo la via diretta di valle. Nel fisico ancora il fastidio di non potersi rimettere in natura, eppure negli occhi lo splendore di queste persone, nel cuore la magnificenza d’una piacevole giornata, nello spirito l’accrescimento delle nuove esperienze.
Grazie Piero, grazie ad un certo Augusto che, due anni addietro, dopo un interessante scambio di pareri attraverso il blog, m’aveva invitato a questa festa (mi piacerebbe sapere se ieri ci siamo poi visti di persona), grazie a tutti voi che mi avete gentilmente accolto tra le vostre fila esattamente come uno di voi. Grazie!
9 agosto 2015 – Anniversario dell’inaugurazione del Rifugio Prandini in Valle di Braone (Braone – BS)
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