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Computare il tempo di percorrenza di un sentiero escursionistico

In questi ultimi quattro anni, nel contesto degli allenamenti di TappaUnica3V, quindi sull’esperienza pratica data dalla recente percorrenza di almeno un centinaio di sentieri per migliaia di chilometri e decine di migliaia di metri di dislivello, nonostante la diffusa regola dei trecentocinquanta metri di dislivello all’ora, ho rilevato una notevole disparità nei computi dei tempi di percorrenza dei sentieri: talvolta le indicazioni risultano essere molto abbondanti mentre altre volte ci si sta dentro a mala pena. Perché?
In prima battuta ho formulato le seguenti ipotesi:
- volontà di mostrarsi più forti tabellando in modo molto stretto i percorsi;
- calcolo dei tempi mediante l’effettuazione pratica del percorso procedendo al proprio passo anziché vincolarsi alla detta andatura di riferimento;
- calcolo dei tempi mediante l’effettuazione pratica del percorso con una cronometrizzazione imprecisa;
- differenziato metodo di gestione delle fermate (chiaro che le soste vadano escluse dal computo): chi le inserisce, chi le esclude;
- calcolo teorico dei tempi basato su velocità differenti (è noto che alcuni, in effetti, computano il dislivello in quattrocento metri all’ora e altri in trecento).

Fatte alcune prove pratiche, pur non scartando nessuna delle suddette ipotesi (che probabilmente compartecipano nell’aggravare la situazione), ho optato per l’idea che l’errore sia più che altro nella convenzione stessa: l’utilizzo del solo dislivello risulta fuorviante e da luogo a calcoli imprecisi, innanzitutto perché è difficile per il camminatore, pur ricorrendo a sistemi di tracciamento GPS, stabilire in tempo reale e con precisione quale sia la sua velocità in forma di dislivello all’ora, poi perché, a parità di dislivello, c’è notevole variazione di tempo tra percorsi dove domina il dislivello (lo si guadagna più rapidamente) e quelli dove domina la lunghezza (si sale più lentamente), tra percorsi sulla linea di massima pendenza (rendono di più in ragione del dislivello) e quelli con diagonali più o meno lunghi (rendono anche molto meno in ragione del dislivello), tra percorsi con unica salita (quota massima meno quota minima e il dislivello è quello) e percorsi dove si alternano salite e discese (di fatto è impossibile computarle con precisione tutte nemmeno utilizzando le carte più dettagliate o i migliori software di tracciamento). In alcuni casi l’aumento di velocità lineare riesce a compensare la situazione e i metri guadagnati in un’ora sono pressoché similari, in altri casi tale compensazione non è raggiungibile, vuoi perchè si dovrebbe aumentare troppo la velocità lineare, vuoi perché l’essere in diagonale non comporta necessariamente l’avere una pendenza media inferiore a quella di una progressione sulla linea di massima pendenza e, quindi, non determina necessariamente un possibile aumento della velocità lineare.

Dal momento che ho pubblicato e continuerò a pubblicare su questo blog relazioni escursionistiche, m’interessava arrivare ad una soluzione e così ci ho studiato sopra e, dopo diverse sperimentazioni, sono arrivato alla conclusione che l’unico modo possibile per poter dare una tempistica attendibile sarebbe quello di usare la velocità lineare facendo riferimento alla lunghezza reale del percorso. Purtroppo non è una metodica praticabile visto che non è semplice misurare direttamente la lunghezza reale e, visto che nessun percorso presenta un’inclinazione costante, non lo è nemmeno il calcolarla in via indiretta attraverso il teorema di Pitagora. Fortunatamente è possibile semplificare facendo riferimento alla sola lunghezza piana visto che, per le distanze (inferiori ai venticinque chilometri) le pendenze tipiche dell’escursionismo (inferiori ai quaranta gradi), la differenza tra le due non è poi tanto rilevante: se a sessanta gradi è pari a un non trascurabile cento percento (ovvero per un chilometro di lunghezza piana corrisponde a due chilometri di lunghezza reale), a quarantacinque gradi già si riduce ad un meno rilevante quaranta percento (un chilometro di lunghezza piana corrisponde a millequattrocento metri di lunghezza reale), a trenta gradi diventa un poco rilevante quindici per cento (da mille a mille e centocinquanta metri) e a quindici gradi si riduce ad un trascurabile tre percento (da mille a mille e trenta metri).
Si potrebbe obiettare che cambiando la pendenza cambia la velocità di progressione. Vero, ma, intanto la cosa ha effetto anche utilizzando il dislivello come parametro di calcolo, poi l’escursionista accorto dovrebbe procedere ad una velocità costante pari a quella che è in grado di mantenere a lungo sulle forti pendenze (metodica che permette di recuperare senza fare fermate sfruttando i tratti pianeggianti, anche brevissimi, che sempre si trovano all’interno dei percorsi, anche quelli più ripidi), cosa complessa da fare se si usa la velocità in dislivello che, come abbiamo già visto, è pressoché impossibile da percepire anche con grande esperienza di montagna e non è fornita in tempo reale dagli strumenti GPS (almeno allo stato attuale della tecnologia), ma molto facile se si usa la velocità lineare, sicuramente percepibile da chiunque e quasi perfettamente rilevabile in tempo reale mediante gli strumenti elettronici GPS.

Resta il problema dell’allenamento e, quindi, della differente velocità da persona a persona. Qualsiasi sia il sistema di computare e riferire una tempistica tale problema sussiste e va necessariamente risolto facendo riferimento a una velocità di riferimento. Ok, ma quale? Beh, semplice: quella che consente una progressione agevole (ovvero che non richiede un allenamento intensivo e costante, indi accessibile alla media delle persone in poche settimane di allenamento al cammino) e, nel contempo sicura, si, sicura, perché in montagna c’è uno stretto legame tra sicurezza e velocità o, per meglio dire, tra sicurezza e lentezza: se l’andare di corsa può comportare una maggiore facilità all’inciampo o all’errore (ma l’esperienza può in gran parte compensare, d’altronde di corsa ci si può andare solo con un allenamento adeguato e, quindi, una notevole esperienza), l’andare eccessivamente lenti contempla l’esposizione prolungata ai pericoli oggettivi della montagna, quali le basse temperature del primo mattino e della tarda serata, i sempre possibili cambiamenti meteorologici, il buio della notte, l’insolazione del giorno e così via, tutte cose che l’esperienza può insegnare ad affrontare ma non può assolutamente compensare (la sicurezza, intesa come assoluta assenza di rischi o come totale prevenzione degli stessi, è un concetto teorico e non esiste nella pratica reale: la montagna è pericolosa, stop!). Ecco quindi che deve pur sempre esserci un adeguato rapporto tra lunghezza del percorso e velocità di progressione, per i computi delle tabelle di marcia conviene far riferimento alla velocità adeguata sulla più tipica lunghezza massima delle escursioni: venti chilometri (generalmente oltre tale distanza l’itinerario viene diviso in tappe o affrontato solo da chi ha molta esperienza di montagna e adeguata attrezzatura, capace di rivalutare la tempistica a suo uso e consumo), da percorrersi in un tempo massimo di dieci ore (che in qualsiasi stagione permette di partire e arrivare con la luce del sole), per una velocità media di due chilometri all’ora. Calcolando i tempi di percorrenza mediante la velocità lineare di riferimento e la lunghezza piana del percorso ecco che nella stragrande maggioranza dei casi forniremo un valore attendibile e se sbagliamo lo facciamo in eccesso per cui la sicurezza dell’escursionista non è messa a repentaglio, al massimo succederà che sarà indotto a rinunciare a itinerari che invero potrebbe invece effettuare.
Se vogliamo essere ancora più attendibili, possiamo complicarci un poco il computo inserendo alcune eccezioni e relative variazioni di velocità lineare (N.B. questi parametri li sto ancora verificando e potrebbero cambiare un poco, quando saranno perfetti rimuoverò questa postilla):
- 1,5km/h nelle salite ripidissime (oltre il 70% di pendenza, alias 35 gradi di inclinazione) e costanti (senza sensibili variazione di pendenza) che superano la lunghezza di un chilometro e/o il 50% dell’intero percorso;
- 2,5km /h nei piani su asfalto o liscio sterrato che superano i due chilometri di lunghezza e/o il 50% dell’intero percorso;
- 3km/h nelle discese costanti su fondo agevole che superano il chilometro di lunghezza e/o il 50% dell’intero percorso.
VivAlpe 2017
Ormai senza sosta la nostra attività e, dopo aver prolungato il programma 2016 integrando anche il mese di dicembre, eccoci a presentare ufficialmente l’entusiasmante programma escursionistico del 2017.
Molte le novità in campo, prima fra tutte la copertura di tutti i mesi dell’anno, in alcuni casi anche con più uscite mensili, alternando uscite leggere con altre più pesanti, uscite diurne e, seconda novità, uscite notturne, infine tre lunghi cammini, ovvero escursioni che superarono i trenta chilometri e i duemila metri di dislivello.
Ai primi di luglio Emanuele sarà nuovamente sulle tracce del 3V con la riedizione 2017 della sua TappaUnica3V e sono state per l’occasione programmate due escursioni di accompagnamento, una, più lunga e in notturna, alla partenza e l’altra, diurna e breve, all’arrivo.
Aggregarsi a noi in queste uscite vi permetterà non solo di fare belle escursioni ma anche di conoscere e avvicinare uno stile escursionistico improntato alla massima naturalità e semplicità, uno stile che, pur senza ripudiare del tutto la tecnologia, vuole rimettere l’uomo al centro della sua azione, recuperando quell’attenzione al sé che era propria di un non lontanissimo mondo, sia in senso specificatamente alpinistico che in quello più generico. La formulazione delle uscite è, infatti, quella dell’abbigliamento facoltativo: ogni qual volta sia possibile (e nostro obiettivo è quello di riuscire a far crescere sempre più il limite del possibile per avvicinarci al sempre possibile) chi lo desidera potrà liberarsi anche per intero dai vestiti, senza per questo condizionare e limitare chi preferirà restare vestito.
VivAlpe 2017 – Vestiti è bello, nudi è meglio (clicca qui per trovare altre informazioni su questo nostro motto)
- 19 uscite in totale
- 9 di stampo classico
- 3 in notturna
- 3 ultra (53, 32 e 70 chilometri di lunghezza / 2840, 2070, 4550 metri di dislivello)
- 2 di accompagnamento a TappaUnica3V (1 diurna e 1 notturna)
- 1 per la manifestazione del 3V a memoria di Silvano Cinelli
- 1 pre natalizia con festa di fine anno
TappaUnica3V – Il nudo solitario lungo cammino di Emanuele Cinelli lungo il sentiero 3V “Silvano Cinelli”
- più di 130 chilometri di lunghezza (ma alcuni calcoli ne danno 160)
- oltre i 7500 metri di dislivello (un calcolo manuale porta a 9500)
- 3 soli punti di rifornimento e riposo
- 40 ore di cammino effettivo
- un massimo di 8 ore di sosta (ne sono state programmate 5)
- partenza da Brescia ore 20 di venerdì 7 luglio
- arrivo a Brescia ore 17 di domenica 9 luglio
Clicca sulla locandina per accedere alla pagina delle schede descrittive di ogni singola uscita.
Storia e filosofia dell’Alpinismo: Evoluzione socio-culturale dell’alpinismo
Un altro dei miei vecchi lavori in ambito alpinistico, purtroppo rimasto incompiuto (la parte finale è solo impostata nei temi rilevanti)!
Chiave di lettura
Tre possono essere gli obiettivi d’una analisi storica: la conoscenza dei fatti, la comprensione degli avvenimenti o ambedue.
Tralasciando l’ultima possibilità, che può intendersi come la somma delle altre due, ci è possibile riconoscere due diversi atteggiamenti di studio: il nozionismo e l’analisi.
Il nozionismo contempla, nella sua forma più esasperata, la sola memorizzazione d’un elenco di date, nomi e avvenimenti, alla quale si aggiunge, nelle forme meno esasperate, l’attenzione per la concatenazione formale dei singoli fatti; sempre, comunque, vengono completamente ignorate le diverse implicazioni sociali, culturali ed economiche: si osserva l’alpinista ignorando l’uomo.
L’analisi, al contrario, trascura la singolarità dei fatti per occuparsi in modo più ampio e approfondito delle genericità delle correnti ideologico-culturali, evidenziando, nel nostro specifico caso, il rapporto esistente fra evoluzione dell’alpinismo ed evoluzione dell’uomo.
Risulta evidente la complessità e l’impegno d’un lavoro di tipo analitico, ma la coinvolgente dinamicità dello studio, nonché la sua utilità pratica compensano ampiamente la fatica e la dedizione profuse molto più di quanto la semplicità e sinteticità del nozionismo possano compensarne l’accademismo e la noia.
Strutturazione dell’analisi
Non possiamo addentrarci in un lavoro analitico senza una precisa idea strutturale, senza, cioè, aver individuato la catena degli eventi fondamentali ai quali far riferimento, catena che possiamo così schematizzare:
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1° periodo dall’apparizione dell’uomo al XVIII secolo – nascita ed evoluzione del rapporto uomo-montagna;
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2° periodo XVIII secolo e prima metà del XIX – formazione ed evoluzione delle motivazioni socio-culturali che portarono alla nascita dell’alpinismo;
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3° periodo seconda metà del XIX secolo – nascita dell’alpinismo;
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4° periodo XX secolo – evoluzione tecnico concettuale dell’alpinismo.
Nascita ed evoluzione del rapporto tra l’uomo e la montagna
Preistoria
Sfruttamento per esigenze di sopravvivenza
Vari ritrovamenti archeologici dimostrano che già nella preistoria l’uomo s’inoltrò fra le montagne, costruendovi villaggi e dedicandosi allo sfruttamento delle risorse naturali. Ancora non è stato possibile stabilire con assoluta certezza (e, forse, mai si potrà farlo) quale fosse il rapporto che intercorreva tra i nostri lontani progenitori e la montagna, possiamo soltanto intuirlo sulla base di quanto si è potuto rilevare nelle popolazioni indigene che, negli ultimi secoli, ancora vivevano allo stato primitivo, osservazioni che ci autorizzano a pensare ad un rapporto fortemente condizionato dalla paura, una sorta di timorosa venerazione, se non addirittura una vera e propria adorazione idolatria: la montagna come un dio possente e misericordioso da temere, rispettare e servire in cambio dei suoi favori e in pena dei suoi furori.
D’altra parte, come poteva diversamente apparire all’uomo della preistoria questo misterioso mondo popolato da belve feroci, ma che allo stesso tempo gli offriva incomparabili doni quali le grotte dove rifugiarsi o la selvaggina con cui nutrirsi?
Idolatria
Così, per migliaia e migliaia di anni, la montagna non solo condiziona, ma determina il regime di vita delle popolazioni che abitano nelle sue non necessariamente immediate vicinanze.
Con l’affievolirsi dei fenomeni di assestamento geologico, il dio montagna sembra placarsi e perdere parte della sua potenza, l’uomo, presumibilmente, ne approfitta per incrementare la propria attività di sfruttamento delle risorse naturali, acquistando man mano la posizione del padrone, del dominatore. A questo punto non è più pensabile che l’uomo possa essere sottomesso ad una figura totalmente dissimile dalla propria e, abbandonate le forme di venerazione idolatria, crea uno o più dei a propria somiglianza, dando origine al deismo.
Paganesimo
Sacralità (dimora degli dei)
Con l’avvento delle religioni deistiche si assiste ad un primo sostanziale mutamento nel rapporto tra l’uomo e la montagna, non più o non solo salita per ottemperare alle necessità di sopravvivenza, ma anche per esigenze meno impellenti, quali la costruzione dei templi o la celebrazione di riti religiosi, ad esempio le orge in onore del dio Dionisio che le Baccanti tenevano sulla cima del Parnaso, monte della Grecia sovrastante l’antica città di Delfo.
Certamente è ancora presto per parlare di alpinismo, ma è comunque un primo passo verso il tipo di rapporto che ne è alla base: la montagna non è più un dio ma soltanto un oggetto temporale che, per la sua posizione dominante e vicina al cielo, può anche, ma non necessariamente, assumere il ruolo di altare e, talvolta, di dimorategli dei (vedi l’Olimpo, dove, secondo gli antichi Greci, viveva Zeus).
Lotte imperiali
Militarizzazione
Parallelamente alla dimensione religiosa, il succedersi di violente guerre d’espansione imperiale porta la diffondersi di un utilizzo militare delle montagne, vuoi per proteggersi dagli assalti degli eserciti nemici, che per aggirare le linee di difesa dell’avversario, ma anche come luogo d’osservazione; l’esempio forse più grandioso è dato dall’impresa di Annibale che, nel 218 A.C. fece attraversare al suo esercito, comprendente anche un discreto numero di elefanti, l’arco alpino.
Il tutto contribuisce, chiaramente, ad un ulteriore avvicinamento dell’uomo alla montagna, ma siamo ancora nel campo di un rapporto forzato e la montagna è solo un mezzo e non il fine.
Cristianesimo
Misticismo (Altare)
Durante il periodo di massima espansione dell’impero romano, la pax romana consente una libera circolazione nell’intero areale mediterraneo e, conseguentemente, vi è una trasfusione di religioni dall’oriente all’occidente, fra le quali si trova anche il Cristianesimo.
Inizialmente il culto di Cristo viene osteggiato dalla classe romana dominante, che vede nelle regole evangeliche un tarlo per i poteri e i vantaggi acquisiti; anche la gente comune, la plebe, non apprezza anzi teme questa ideologia ed emargina i suoi cultori, come possiamo ben capire leggendo i commenti di Tacito sulle persecuzioni ordinate da Nerone.
Nel frattempo la necessità di una fede mistica che non si limiti a dare dei concetti ma dia una ragione alla vita e alla morte e la profonda impressione suscitata nei pagani dalla tranquillità con cui i Cristiani affrontano ogni genere di supplizio, portano ad un lento ma continuo diffondersi di questo nuovo culto.
Presto anche la più tenace resistenza dei ricchi e dei potenti s’incrina e nel 313 d.C. con l’Editto di Milano, Costantino concede ai Cristiani la piena libertà di culto.
Con questa data inizia una nuova era, non solo per la storia socio-culturale dell’Europa, ma anche per il rapporto uomo-montagna, che con il diffondersi del Cristianesimo trova nuovi spunti per modificarsi.
Medioevo (1000 – 1700)
Demonizzazione
Purtroppo, la Chiesa Cattolica nei secoli a seguire, acquisita una posizione dominante, si dimostra più interessata al mantenimento e al potenziamento del proprio potere temporale che alla professione della verità, e per perseguire tali obiettivi inventa e diffonde parabole intimidatorie che esasperando le figure demoniache creano nell’animo della gente un profondo timore dell’ignoto, del sovrannaturale, di tutto ciò che la ragione umana non riesce a comprendere e spiegare.
Di fatti incomprensibili la montagna ne è ricca ed è così che il timore si combina con la fantasia creando dicerie tutt’altro che accattivanti: demoni, streghe, serpenti e draghi sono tra i principali interpreti di tali racconti e il risultato è facilmente intuibile, specie dopo che il Concilio Ecumenico di Trento esilia fra i monti demoni e streghe del paese.
Motivazioni socio-culturali che determinano la nascita dell’alpinismo
Illuminismo (seconda metà del 1700)
Conoscenza scientifica
Le legende alpine continuano per molto tempo a spaventare la gente, tenendola a rispettosa distanza dalla montagna, ma col nascere dell’ideale illuministico diventano fonte d’interesse e, contrariamente a prima, contribuiscono ad alimentare il movimento di studio ed esplorazione dell’alpe.
Infatti l’Illuminismo si prefiggeva di portare la luce della ragione nelle tenebre del passato e, rifiutando a priori ogni fattore mistico, riteneva di poter spiegare qualsiasi avvenimento che i sensi umani possono percepire.
Ecco che questi draghi sputafuoco, questi enormi serpenti, questi demoni diventano un argomento di studio, insieme a tutti gli altri aspetti della natura alpina e non.
Presa di contatto
Fra gli scienziati interessati all’alta montagna c’è un professore di filosofia e scienze naturali, il ginevrino Horace Benedict de Saussure, attratto in particolar modo dal Monte Bianco, già ritenuto la più alta cima delle Alpi. In questa scelta è probabile che entri in gioco anche un fattore puramente emotivo, il fascino suscitato da una montagna tanto alta e imponente, ma lo scopo principale del De Saussure è quello di portarsi il più in alto possibile per eseguire una serie di esperimenti sulla rarefazione dell’ossigeno, sulla temperatura dell’aria eccetera. A tal fine, però, si deve trovare un adeguato itinerario di salita, pertanto nel 1760 offre un premio in denaro a colui o a coloro che per primi tracceranno la via alla vetta del Monte Bianco. Ne scaturisce una competizione tra i montanari di Chamonix che, a più riprese, tentano l’ascensione, superando ostacoli davvero considerevoli per l’equipaggiamento e la conoscenza di cui dispongono; l’8 agosto 1786 alle ore 18, dopo un bivacco a quota 2329, Jacques Balmat e Cristofe Paccard raggiungono la vetta del Monte Bianco.
Annullamento delle leggende e superamento delle paure
Tecnicamente nasce l’alpinismo ma ne manca ancora il concetto morale, l’unica giustificazione per i rischi corsi sono i soldi o l’interesse scientifico: quando Paccard e Balmat raggiungono la vetta del Monte Bianco i giornali riportano la notizia che un uomo è riuscito a portare un barometro sulla cima del Monte Bianco; in seguito il De Saussure stesso scrive <<il mio scopo era soltanto quello di raggiungere il punto più elevato; era necessario soprattutto condurre a termine lassù quelle osservazioni e quelle esperienze che, sole, avrebbero giustificato il viaggio>>.
Tali salite, peraltro, portano all’annullamento delle leggende e al superamento delle paure nei confronti della montagna, come conseguenza si moltiplicano le persone coinvolte in questo nuovo tipo di attività, vuoi in qualità di guide che in qualità di scienziati.
Parallelamente è opportuno rilevare che il fascino della montagna non lascia indifferenti questi primi suoi esploratori, lo stesso De Saussure, durante un bivacco al Colle del Gigante, scrive: <<Queste cime hanno voluto cercare di lasciare in noi un senso di rimpianto; abbiamo avuto una sera semplicemente stupenda: tutte le vette che ci circondano e la neve che le separa erano colorate delle più belle sfumature del rosa e del porpora, l’orizzonte verso l’Italia era limitato da una enorme cintura rossa dalla quale la luna piena è sorta con la maestà di una regina. Queste nevi e queste rocce, che danno un riflesso insostenibile alla luce del sole, rappresentano uno spettacolo stupefacente e delizioso al dolce chiarore della luna. Che meraviglioso contrasto fra le rocce scure e di forma precisa ed ardita ed il candore lucido della neve! L’anima si eleva, l’orizzonte dello spirito sembra allargarsi, e, in mezzo a questo maestoso silenzio, sembra di sentire la voce della Natura, di diventare i confidenti dei suoi riposti segreti>>.
Preromanticismo
Rifiuto e abbandono del razionalismo estremo
Sull’orma del De Saussure, che scrive la Relation Abregee, altri scrivono sulla montagna: nasce la letteratura alpina ed uno dei suoi principali interpreti è Ramond de Carbonnieres, avvocato e scrittore.
Romanticismo (prima metà del 1800)
Ricerca dell’intimo colloquio con la natura
Con l’inizio del XIX secolo si diffonde in Europa una nuova corrente ideologica, il Romanticismo; la riscoperta del sentimento, l’esaltazione dell’intimo colloquio con la natura portano a guardare la montagna sotto il solo aspetto emotivo, dimenticando a valle gli strumenti della scienza.
Nascono a questo punto anche il concetto alpinistico e lo sport dell’alpinismo, una forma di svago in cui la montagna non è un mezzo ma un fine.
Diffusione della pratica alpinistica
Durante il periodo romantico la montagna entra nei temi di molti poeti e scrittori, le cui toccanti descrizioni penetrano nell’animo della gente diffondendo l’interesse per il nuovo sport, sebbene via sia ancora chi non condivide tale visione della montagna: infatti ancora nel 1833 l’Inglis osserva <<per chi non è spinto da motivi scientifici, è pura follia affrontare le sofferenze e i pericoli di un’ascensione ben al di sopra della linea del gelo eterno>>
Modificazioni del concetto alpinistico ed evoluzione dell’alpinismo
Novità snob
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Esplorazione delle montagne
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Primi segni di evoluzione tecnologica
Nel 1869 Paul Grohmann sostituisce gli scarponi chiodati con le pedule.
Differenziazione dei livelli tecnico-concettuali
Ricerca di nuove mete (fine 1800)
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Lotta con l’Alpe (inizio 1900)
Meredith: <<trasferite la vostra febbre nelle Alpi, voi che avete lo spirito ammalato; salite, torturate le vostre membra, lottate tra le vette, gustate il pericolo, il sudore, trovate il riposo… Volete sapere che cosa significa sperare e avere tutte le speranze a portata di mano? Affrontate le rocce là dove il pendio è tale che ogni passo dimostri quello che siete e quello che potete diventare.>>.
Guido Rey: <<Io credetti e credo la lotta coll’Alpi utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede>>.
Alpinismo = conquista
…
Alpinismo = arrampicata
Mummery: <<il vero alpinista è l’uomo che tenta nuove ascensioni.>>
1905 Guido Rey: <<Incominciavo a provare dei formicolii alle spalle; gli è che toccava ai muscoli superiori il lavoro più faticoso; in simili salite non sono le gambe che sospingono la persona ma le braccia che la traggono in alto; le ginocchia hanno l’ufficio di pontelli che tengono il corpo discosto dalla rupe, mentre i piedi, inutile peso, ciondolano nel vuoto. Ma è una tecnica indescrivibile che muta ad ogni istante come suggerisce l’istinto. Nei cataletti si va su più per contatti e per aderenze che per trazione o per spinte; nella strettoia delle pareti il corpo si contorce e ondeggia, si rigonfia o si fa sottile, scatta o striscia come quello di un serpe; ma sul muro nudo e liscio, ove non sono più che brevi fasce e rare sporgenze, si procede radente il pendio, a passetti misurati, ponendo con cautela un piede davanti all’altro, tastando, accarezzando la rupe, avvicinandole il volto come se si volesse baciarla, mentre si è tentati di morsicarla coi denti; e si cerca di equilibrare la persona con lenti moti, con spostamenti lievissimi, ma per lo più ci si contenta di una stabilità molto relativa.>>
1910 Guido Rey: <<Piaz mi ammoniva come un novizio che non era buona scuola lo affidarsi alle mani, si sale con gli occhi, diceva; cerchi con calma, e troverà ovunque ove appoggiare il piede>>.
Nel 1900 gli arrampicatori usano pedule con tomaia in pelle o in tela e la suola in feltro pressato.
Grivel costruisce i primi ramponi a 10 punte.
Nel 1909 il tedesco Fiechtl inventa il chiodo forgiato.
Nel 1912 Dulfer introduce l’uso del moschettone.
Nel 1924 viene utilizzato il primo chiodo da ghiaccio.
Nel 1929 i fratelli Grivel realizzano i ramponi a 12 punte.
Contrasti ideologici
Mummery al Dente del Gigante: <<Assolutamente inaccessibile con mezzi leali>>
1912, Regole di Preuss: <<1 – Non bisogna soltanto essere all’altezza delle difficoltà che si affrontano, ma nettamente superiori ad esse; 2 – le difficoltà che un alpinista può superare in discesa, senza l’uso della corda e con tranquillità d’animo, devono costituire il limite massimo delle difficoltà che affronterà in salita; 3 – l’uso dei mezzi artificiali è giustificato solo in caso di pericolo; 4 – il principio della sicurezza prevale, non però l’assicurazione forzatamente ottenuta con mezzi artificiali, in condizioni d’evidente pericolo, ma quella sicurezza preventiva che ogni alpinista deve basare sull’esatta valutazione delle proprie forze; 5 – il chiodo da roccia è una riserva per casi di necessità e non deve costituire il fondamento di una tecnica speciale.
Piaz: <<Secondo me il voler elevare a principio sovrano la soluzione di ogni problema, escludendo nel modo più assoluto l’impiego dei mezzi tecnici, dal puntoi di vista umano è barbaramente assurdo e ritengo che si tale per tutti coloro che nell’arrampicata non scorgono solo un’attività sportiva diretta arbitrariamente da norme inamovibili che tarpano le ali ad ogni individualità ed abbassano l’individuo alla parte di una macchina meschina, con l’obbligo di comportarsi come la recluta al comando di un caporale. Sfidare la morte per la purezza dello stile! Ciò francamente mi sembra più mostruoso che enorme. Non mi pare di enunciare una grande scoperta dicendo che il condurre a termine una scalata con la massima riduzione del pericolo sia un principio più saggio e soprattutto più umano.>>.
L’estetismo (1950 – 1960)
Ricerca della linea a goccia d’acqua
Espansione della progressione artificiale
…
Il purismo (1975)
Influssi anglosassoni e americani
…
Il nuovo mattino
…
Il rispetto (1990)
Ecologia
…
Nuove dimensioni dell’Alpinismo
…
Controcorrente
Tic. Tac. Tic, tac. Cosa succede? Piove! Miseriaccia cane, un’altra giornata di maltempo.
È da tre giorni che siamo bloccati qui, nella nostra piccola tenda, alla base della montagna di cui vogliamo scalare il famigerato spigolo. Siamo scocciati e il nervosismo che s’accumula in noi ci sta stressando oltre misura, avanti di questo passo perderemo la capacità di concentrazione e autocontrollo necessaria alla progettata ascensione. Dobbiamo muoverci, distrarci, sfogare le tensioni interne, ma cosa possiamo fare con questo tempaccio? Arrampicare? No di certo, in questa zona non vi sono vie facili e il lichene bagnato non è certo l’ideale. E allora?
Idea! Perché non andiamo a fare una passeggiata verso quella valle là in fondo? Potremmo trovare dei funghi per la cena o incontrare qualche animale selvatico, magari un orso, e scattare delle belle fotografie.
L’amico mi guarda un poco perplesso, io mi vesto, prendo la macchina fotografica (tanto è subacquea), un paio di rullini e m’avvio. Non faccio dieci passi che l’amico mi raggiunge, non è del tutto convinto ma: “Non mi va di restare solo tutto il giorno, vengo con te”.
Lentamente scendiamo lungo i ripidi prati, uno scivolone e… mi ritrovo, cinquanta metri più in basso, a cavallo di un cespuglio. “Tutto bene?” domanda l’amico. “Si tutto bene” rispondo, “è stato un attimo ma mi sono quasi divertito, voglio riprovare”. Scelgo un cespuglio, prendo la mira e via, velocissimo scivolo sull’erba bagnata andando a fermarmi dolcemente, o quasi, nel cespuglio. “È bellissimo, prova anche tu”. L’amico esita per un attimo ma poi si esibisce in un lungo scivolone.
Così procedendo in breve raggiungiamo il fondo della valle. Siamo bagnati fradici ma non ci facciamo caso, ci stiamo divertendo e ciò basta e avanza. A rotoloni, ridendo a crepapelle, attraversiamo la rada pineta.
A questo punto un largo e profondo torrente ci sbarra la strada, seguire la riva su cui ci troviamo è impossibile, dobbiamo passare dall’altra parte, ma come? Non ci sono ponti, non ci sono guadi, come passiamo? “Ma è semplice! Un salto e… a mollo, tanto più bagnati di quello che siamo”.
Presto detto e presto fatto, ma una volta in acqua la corrente ci trascina a valle e, dopo un primo tentativo di resistenza, ci lasciamo andare scoprendo il piacere di lasciarsi portare dalle acque.
Scivolando di rapida in rapida, giochiamo a scontrarci o a evitarci, gareggiamo in velocità, ci sfidiamo a star fermi nel bel mezzo della corrente, a raggiungere un preciso punto della riva, a tuffarci dalle cascatelle, a …, a…, a… È l’esaltazione della fantasia più sfrenata e pazza, quella fantasia che, in condizioni normali, deve restarsene rintanata in noi, schiava delle regole del vivere secondo ragione.
Un gioco dopo l’altro, approdiamo sulla riva di un piccolo laghetto. Un posto incantevolmente meraviglioso, dove varrebbe la pena soffermarsi a lungo. Ma la giornata volge al termine, dobbiamo affrettarci a tornare alla tenda prima che faccia buio.
Tic, tac, tic, tac. Piove ancora. La nostra vacanza è finita senza poter fare la programmata scalata, ma non c’importa: non solo ci siamo divertiti ugualmente, ma in più abbiamo scoperto un altro modo di vivere la montagna, abbiamo capito che, in montagna come ovunque, non esistono soltanto bel tempo e difficili ascensioni, ma anche mille altre cose che, seppur banali, possono riempire di gioia e soddisfazione la nostra giornata.
Grazie pioggia e… arrivederci a presto.
I fulmini: cosa sono, come si formano, come comportarsi
Era il tempo dei modem analogici, io frequentavo assiduamente il newsgroup ISM (it.sport.montagna) e nell’ambito di un acceso dibattito sui fulmini e sul come evitarli nacque un mio specifico articoletto. In seguito vennero confermate alcune cose che hai tempi erano solo delle ipotesi, ad esempio l’esistenza delle scariche guida e la loro relativa pericolosità, ma materialmente poco o nulla cambia in relazione al discorso fatto nell’articolo, che quindi riporto senza revisioni.
L’articolo si riferisce nello specifico alla montagna, ma è facile estrapolarne considerazioni valide per altri contesti.
Oggi piccola lezione sui fulmini, per spiegarne la corretta dinamica di formazione ed evoluzione. Preciso che vado a memoria, pertanto ingegneri, periti ed elettricisti vari troveranno alcune imprecisioni, ma appositamente non vado a riprendere i miei vecchi libri di scuola, voglio che il testo sia il più semplice possibile.
Il fulmine altro non è che la fase finale di un evento naturale: la scarica elettrica tra terra e cielo (i lampi sono invece la fase finale della scarica tra nuvola e nuvola).
Come nasce questa scarica? Bene il motivo preciso è irrilevante ai nostri fini, basti dire che per qualche evento la terra acquista elettroni assumendo un potenziale (carica elettrica) negativo e il cielo (diciamo così per semplicità) perde elettroni assumendo un potenziale positivo. Ad un certo punto la differenza di potenziale (differenza di tensione) tra terra e cielo diviene talmente alta da vincere la forza isolante della colonna d’aria frapposta fra i due punti che hanno assunto la carica elettrica, quindi gli elettroni possono fluire liberamente da terra verso il cielo per ristabilire l’equilibrio, cioè riportare a zero la differenza di potenziale. In realtà prima che l’equilibrio venga raggiunto, l’aria si ricostituisce, per effetto di un insieme di concause, e interrompe bruscamente il passaggio di corrente provocando l’arco voltaico da cielo a terra: il fulmine, per l’appunto.
Ora veniamo alla seconda parte della trattazione: in quali punti si genera la scarica?
Invece di utilizzare difficili discorsi tecnici (che tra l’altro non ricordo più bene), mi limito a riepilogare un esperimento che viene fatto fare a tutti gli studenti di elettrotecnica.
Prendete una piastra piana, una sfera e un cono dello stesso materiale e con la stessa area di superficie e ponetele di fronte ad un’altra piastra più grande come in figura:
Ora inducete carica positiva nella piastra grande e la stessa carica negativa nella piastra piccola, nella sfera e nel cono. Bene la prima scarica partirà dal cono, mentre la sfera e la piastra piccola saranno in grado di accumulare una carica ben maggiore.
Ora veniamo a noi, cosa si evince da tale esperimento?
Che le scariche (che da ora chiamerò per semplicità fulmini) tra cielo e terra avvengono principalmente dalle punte, quindi dalle vette delle montagne e dalle cime degli alberi isolati (un fitto bosco con alberi tutti o quasi della stessa altezza dev’essere assimilato alla piastra piccola o alla sfera).
Inoltre tutta la tensione di scarica viene riversata nello spostamento verso l’alto, lasciando inerti le pendici del cono, chi venga pertanto a trovarsi sulle pendici del monte interessato da una scarica non è direttamente colpito dalla stessa. In effetti può sentirne gli effetti preparatori, causa l’accumulo di carica, ma questi sono perfettamente innocui e non stanno a predire l’ineluttabilità della scarica su di noi o presso di noi.
In seguito vanno poi considerate le tensioni di terra che si generano durante la fase di strappo (interruzione) della scarica, pure queste sono solitamente innocue, salvo non trovarsi nelle immediate vicinanze della zona di scarica dove potremmo essere coinvolti anche dall’effetto termico o dallo spostamento d’aria. Le correnti di terra possono invece rilevarsi pericolose in prossimità di tetti, qui, infatti, potrebbero bucare l’aria tra il tetto e il terrazzo sottostante, invece che scorrere nel terreno attorno. In pratica viene a crearsi un mini-fulmine con conseguenze anche letali. Lo stesso dicasi per l’apertura di grotte.
Dunque, pericoli ci sono ma non sono così elevati come la fantasia popolare tende a dipingerli: mi sembra d’essere tornato ai tempi di Balmat e Paccard; queste sono cose dimostrate ancora dagli Illuministi nella seconda metà del ‘700. Bastano alcune piccole regole:
- non fermarsi sulle vette, specie se molto piccole e acuminate;
- non fermarsi sotto gli alberi isolati, non tanto per il pericolo d’essere colpiti dal fulmine (che caso mai partirà dall’albero), ma per il pericolo di rimanere ustionati o d’essere travolti dall’albero se, una volta colpito da un fulmine, dovesse cadere in toto o in parte;
- ai prati, specie se molto ampi, scegliere il bosco fitto, nel piatto del prato siamo noi a diventare punta;
- se un temporale ci sorprende su un esteso ghiacciaio, magari circondato da poche e poco rilevanti cime, sempre per il fatto che in tali situazioni noi stessi diventiamo delle punte, potremmo avvertire i segnali di scarica (i peli che si rizzano, i capelli che si rizzano, piccole scariche a fior di pelle o sulla piccozza, ecc.), in tal caso, anche se non è detto che possa trattarsi di un avvisaglia di fulmine, sedersi a terra per ridurre l’effetto di dissipazione della carica;
- mai cercare riparo sotto piccoli tetti o in rientranze appena accennate;
- mai soffermarsi sull’apertura di caverne e grotte, ma penetrare nelle stesse il più possibile e comunque almeno un paio di metri.
Per quanto riguarda la ferraglia addosso, beh questa potrà al più aumentare l’effetto delle scariche preliminari ma di certo non ci rende più idonei alla scarica rispetto alle tonnellate di rocce che ci stanno intorno, e comunque principe è il principio della dissipazione delle punte, ma delle vere punte, delle punte rilevanti, non delle puntine quali possiamo essere noi e i nostri materiali rispetto all’ambiente che ci circonda.
Detto questo, allontanare il materiale non costa nulla, quindi facciamolo pure se proprio dobbiamo restare fermi, ma se appena è possibile guadagnare un posto sicuro, o quantomeno più sicuro, uscire dalla parete o dalla ferrata, facciamolo senza patemi, e con la massima tranquillità, che non vuol dire in lentezza ma nemmeno di corsa.
Linea Elettrica al Corno di Salarno Orientale (Saviore dell’Adamello – BS)
Nata come tentativo di via nuova sulle ampie placconate centrali del versante meridionale di questa montagna, per successive vicissitudini non è più stata portata a termine, rimanendo comunque un’interessante variante d’attacco alla classica via Bramani, specie quando neve e/o gelo ne rendono pericoloso il diedro iniziale.
1^ salita effettuata il 5 Agosto 1984 da Cinelli Emanuele e Lancini Andrea
Sviluppo della variante 400m.
Difficoltà: TD- (concentrate nella parte centrale: 1 tiro di V+ e uno di V con due passi in A0)
16 rinvii più le soste, lasciato 1 ch di calata/sosta
Avvicinamento
Dal Rif. Prudenzini si segue l’itinerario del passo di Salarno fin verso la base delle rocce del Cornetto. Qui lo si abbandona e, seguendo la base del Cornetto, senza percorso obbligato seguendo i vari sentierini lungo le coste moreniche o nel canale di deiezione subito alla base del Cornetto, si sale in direzione del Corno Miller. Quando la salita si fa meno ripida, seguendo l’andamento naturale della valle si devia a destra puntando verso i Corni del Salarno e la Vedretta del Salarno. Tenendosi a sinistra si supera il primo salto roccioso (un tempo coperto dalla Vedretta) per poi riportarsi a destra puntando alla base del cornetto dove questa comincia ad alzarsi al limite della Vedretta (inizio di un evidente e gigantesco diedro).
Salita
Salire tenendosi sulle placche e i salti rocciosi della faccia destra del diedro. Giunti ad una grande terrazza detritica (ch di calata), seguirla verso destra per 50 m. Ora salire in un diedro liscio e compatto ad una cengettina. Per questa si torna a sinistra sulla verticale del grande diedro.
Dalla larga cengia detritica dovrebbe essere possibile evitare il doppio lungo traverso, salendo dritti lungo il grande diedro che definisce la direttiva della salita: lama bellissima e difficile che adduce ad una placca compatta (che noi non siamo stati in grado di superare, ripiegando sul traverso).
Il nostro tentativo si è qui arenato su un muro leggermente strapiombante che porta ad una lunga teoria di placche per le quali si voleva continuare.
Continuando a traversare per la cengettina si possono raggiungere le altre vie di questa parete.
Discesa
Dalla larga cengia detritica è possibile calarsi in doppia fino alla base della parete seguendo esattamente l’itinerario di salita.
Dalla cengettina del traverso a sinistra è necessario ripercorrere a ritroso l’itinerario fino alla larga cengia detritica (doppia nel diedro di raccordo tra cengettina e larga cengia).
Se si prosegue fino in vetta, la discesa dev’essere effettuata calandosi sul Pian di Neve, per il quale al Passo Salarno e, per facile sentiero, alla Val Salarno.
Poesie di gioventù: Bufera
Soffia il vento,
sibilando tra le cime.
Cade la neve,
imbiancando la valle.
Cala la nebbia,
impedendo la vista.
Sembra la fine del mondo,
non si può più avanzare,
bloccati siamo a metà parete.
Non è la prima volta,
ma ogni volta è come se fosse la prima.
Un senso ci attanaglia il cuore,
un senso di paura ci corre nella mente.
Si pensa alla morte,
la morte in parete,
la più brutta di tutte:
attaccati a un chiodo,
sballottati dal vento,
acciecati dalla neve,
induriti dal freddo.
Si pensa alla morosa,
si pensa alla famiglia,
si spera di resistere ancora.
Emanuele Cinelli – 26 marzo 1974
A come… Alpinismo!
Eccovi un altro mio vecchio articolo sull’Alpinismo. Un passo verso la fine andrebbe parzialmente rivisto, ma preferisco lasciarlo così come l’avevo scritto allora: 1988.
A come… Alpinismo
Colle del Gigante (Monte Bianco), anno 1978, il naturalista ginevrino Horace-Bénédict de Saussure scrive: <<Queste cime hanno voluto cercare di lasciare in noi un senso di rimpianto, abbiamo avuto una sera semplicemente stupenda: tutte le vette che ci circondano e la neve che le separa erano colorate delle più belle sfumature del rosa e del porpora, l’orizzonte verso l’Italia era limitato da una enorme cintura rossa dalla quale la luna piena è sorta con la maestà di una regina. L’anima si eleva, l’orizzonte dello spirito sembra allargarsi, e, in mezzo a questo maestoso silenzio, sembra di sentire la voce della Natura, di diventare i confidenti dei suoi più riposti segreti>>.
I motivi che inducono l’illustre professore a salire sull’alpe sono, come lui stesso afferma, esclusivamente scientifici, tuttavia non gli è possibile restare indifferente d’innanzi a simili paesaggi e le sue parole sfuggono alla ristrettezza del linguaggio scientifico per allargarsi in quello letterario. Di conseguenza le sue relazioni, pubblicate in gran parte dell’Europa, non possono passare inosservate, tanto più che, leggendole, ci si sente coinvolti e sembra di provare le stesse intense emozioni in esse descritte.
Oltre alla conoscenza delle Alpi, si diffonde anche la passione per la montagna, anche se per molti anni ancora l’unica motivazione che possa giustificare un’ascensione d’alta montagna è quella scientifica: <<Per chi non è spinto da motivi scientifici è pura follia affrontare le sofferenze e i pericoli di un’ascensione ben al di sopra della linea del gelo eterno>> (H. D. Inglis, 1833). Nel frattempo, però, avviene un importante mutamento ideologico: decade la fede assoluta nella ragione, incrinata dal suo stesso estremismo materialistico, e subentra l’esaltazione del sentimento.
La decadenza del razionalismo e la diffusione dell’ideale romantico portano ad un cambiamento del modo di concepire l’andar per monti e, grazie anche al superamento di molti preconcetti avvenuto a seguito dell’attività svolta dagli Illuministi, si diffonde un diverso atteggiamento mentale: <<Il silenzio di questi luoghi dove nulla vive, dove non può arrivare il chiasso del mondo abitato, contribuisce a rendere le meditazioni più profonde, a dar loro quella tinta cupa, quel carattere sublime che esse acquistano quando l’anima plana sull’abisso del tempo>> (R. de Carbonnieres). È la nascita d’una nuova e ben individuata attività.
Molto probabilmente è a questo punto che viene coniata la parola Alpinismo, la cui formazione avviene partendo dalla parola alpino, dal latino Alpinus “della montagna, che si riferisce alla montagna”, e aggiungendovi il suffisso –ismo, indicante un movimento, un’ideologia, un atteggiamento o una disposizione dell’animo.
Al momento la nuova disciplina è praticata quasi esclusivamente da scienziati e filosofi, ossia dai principali artefici del Romanticismo. Pertanto l’Alpinismo viene inevitabilmente concepito come particolare disposizione dell’animo volta alla ricerca dell’intimo colloquio con la natura alpina, con la montagna. Presto, però, la pratica alpinistica acquista una discreta notorietà e, pur restando nell’ambito di un ristretto ceto sociale, si diffonde anche al di fuori del contesto culturale, acquistando un significato meno idealistico: svago, divertimento, interessante e… snobistica attività.
A seguito del nuovo atteggiamento la montagna non è più “il fine” ma soltanto un mezzo che consente il raggiungimento del massimo piacere personale. L’alpinismo, di conseguenza, inizia a differenziarsi in più livelli tecnico-concettuali: c’è che si accontenta di girovagare per valli e convalli, chi sale fino ai ghiacciai, e chi si spinge fin sulle più alte vette; c’è chi si limita a ripercorrere quanto da altri già fatto e chi, invece, si dedica esclusivamente all’esplorazione di nuove zone e ala salita dei monti ancora inviolati.
Presto tutte le principali cime delle Alpi sono raggiunte, mentre il numero degli alpinisti è in continuo aumento. La ricerca di nuove mete conduce alla considerazione delle cime minori, delle creste secondarie, delle pareti, nel cui superamento s’incontrano pericoli e si sopportano sacrifici sempre più gravosi e numerosi. In poco tempo si forma e si diffonde l’idea della “lotta con l’alpe”: <<Trasferite la vostra febbre nelle Alpi, voi che avete lo spirito ammalato; salite, torturate le vostre membra, lottate fra le vette, gustate il pericolo, il sudore, trovate il riposo; imparate a scoprire senza amarezza che la fatica feroce è una presa di contatto con la più splendida delle visioni e che il riposo è la più bella delle ricompense. Volete sapere che cosa significa sperare e avere tutte le speranze a portata di mano? Affrontate le rocce là dove il pendio è tale che ogni passo dimostri quello che siete e quello che potete diventare>> (G. Meredith); <<Io credetti e credo la lotta coll’Alpi utile come il lavoro, nobile come un arte, bella come una fede>> (G. Rey).
Da questo momento l’alpinismo è e dev’essere conquista, pertanto la sua esemplificazione pratica è data solo è soltanto dalla scalata: <<Il vero alpinista è l’uomo che tenta nuove ascensioni>> (A. F. Mummery).
L’uso, per universale diffusione, e l’abuso, per ovvi interessi personali e commerciali, del tropo[1] “alpinismo uguale arrampicata”, fanno si che anche dopo la decadenza dell’idea di “lotta con l’alpe” e, quindi, dell’alpinismo di conquista, esso (il tropo) si possa mantenere invariato, perpetuandosi fino ai nostri giorni. Oggi, però, s’arrampica per ogni dove: sui sassi d’una cava, sulle scogliere marine, sui muri delle case, su strutture artificiali appositamente create. L’arrampicata non è più soltanto sport alpino, ma può anche essere fine a sé stessa (l’arrampicata per l’arrampicata), indipendente in luogo come in forma (con la stessa visione si può arrampicare anche sulle montagne), l’una, quindi, non è più sinonimo dell’altro, indissolubilmente legato alla montagna: nasce l’esigenza di rivedere il concetto di Alpinismo.
Ancora non si è sopravvenuti a una soluzione univoca e convivono, più o meno pacificamente, diverse opinioni. È però possibile individuare una corrente di pensiero che, seppur ancora debole, potrebbe risultare risolutiva: quella filosofica. Infatti se le limitazioni oggettive (tipo di attività, livello delle difficoltà, parametri morfologici o altimetrici, eccetera) sono tutte decisamente opinabili, il carattere soggettivo (rapporto mentale) è, al contrario, inopinabile: se l’ente alpinismo è diveniente e mutevole, l’idea Alpinismo è immutabile ed eterna.
Ecco quindi che l’Alpinismo non può essere inteso come un determinato modo di “andare in montagna”, ma dev’essere inteso come un particolare modo di “pensare” la montagna: l’Alpinismo è e dev’essere passione, rispetto e comunione con la montagna; l’Alpinismo è… vivere con la Montagna, per la Montagna, dentro la Montagna; ogni altra specificazione appare superflua.
<<Un uomo può amare la scalata ed infischiarsene dei paesaggi di montagna; può essere appassionato per le bellezze della natura ed odiare la scalata; ma può anche provare in egual misura entrambi i sentimenti. Si può senz’altro presumere che coloro i quali più si sentono attirati dalle montagne, e con maggior costanza tornano ai loro splendori, sono proprio quelli che in gran misura fruiscono di queste due fonti di godimento e possono abbinare la fantasia e la gioia d’uno sport magnifico, con l’indefinibile diletto che deriva dall’incanto delle forme, dalle tonalità, dal colore delle imponenti catene montuose>> (A. F. Mummery).
P.S.
Chi è l’alpinista? Alpinista è colui che intende l’Alpinismo come spazio, non come dimensione.
[1] Termine tecnico della retorica indicante un trasferimento semantico, un’estensione del significato di una parola.
Come portare lo zaino?
Ecco un altro mio vecchio articolo.
Premessa

Può sembrare paradossale, eppure non è assolutamente difficile osservare comportamenti errati in relazione al portamento dello zaino, e non solo nei cosidetti alpinisti della domenica, ma anche tra coloro che praticano gli sport alpinistici con maggiore assiduità. In effetti chi mai si è chiesto come si porta uno zaino? Quali libri si preoccupano di trattare l’argomento? Quali corsi analizzano la questione? Quali studi sono stati fatti in merito?
Ad ogni domanda dobbiamo rispondere nessuno o pochi. Eppure il portamento dello zaino è un aspetto molto importante, che coinvolge sia gli aspetti atletici che quelli sanitari. Portare male uno zaino vuole sicuramente dire aumentare la fatica, nel breve termine può procurare dolori alle spalle e alla schiena, alla lunga può generare deformazioni permanenti nella struttura scheletrica del busto, con la cronicizzazione di dolori articolari e muscolari.
Con questo articolo voglio darvi qualche indicazione, basandomi su quanto negli anni sono riuscito a catturare dalle mie personali esperienze e da qualche lettura. Avrei voluto supportare il tutto con della documentazione medico-scientifica, ma ho trovato solo qualcosa in relazione ad alcuni recenti studi sui ragazzi in età scolare, documentazione medica interessante ma non applicabile al contesto tecnico del mio articolo.
Analisi
Le regole per un buon portamento dello zaino sono poche ed elementari.
1 – Azione del carico
Il carico dev’essere posizionato in modo tale da agire in asse con la spina dorsale, ovvero da non comportare flessioni all’indietro della schiena alle quali, istintivamente, porremmo rimedio inclinando il busto in avanti e, così facendo, attiviamo una catena di muscoli altrimenti a riposo o quasi. Prima conseguenza è l’aumento dell’energia consumata, seconda l’affaticamento e l’indolenzimento di tali muscoli, terza la sensibile riduzione della nostra resistenza fisica generale, quarta la limitazione della dilatazione del muscolo diaframmatico che comporta, quinta e grave conseguenza, una scorretta ventilazione polmonare: i polmoni hanno una forma all’incirca a campana, il loro maggior volume è nella parte bassa, quella mossa dal muscolo diaframmatico, se questo è limitato o impedito nel suo movimento siamo costretti a respirare con il torace, una ventilazione che muove meno di un terzo del volume polmonare e interessa una limitata parte degli alveoli, ne consegue una limitata e inefficace ossigenazione del sangue con inevitabile riduzione della capacità di lavoro aerobico, l’unico che non comporta la produzione di tossine e l’insorgenza di crampi.
Per ottenere la corretta azione del carico è necessario che lo stesso risulti, compatibilmente con le necessità di stabilità più oltre illustrate, il più alto possibile e il più vicino possibile alla schiena. L’ideale sarebbe sulla testa, ma la stabilità non ottimale ne sconsiglia l’attuazione, un ottimo risultato si ottiene stringendo al massimo gli spallacci per alzare il baricentro dello zaino rispetto al nostro e posizionando il materiale più pesante nella parte superiore dello zaino: ricordate le gerle dei contadini di montagna e il carico che riuscivano in tal modo a portare?
Altro fattore importante: il materiale dev’essere sempre distribuito in verticale, non in orizzontale, pertanto scegliete uno zaino con la capienza minima necessaria o adattatene la capienza mediante i variatori di carico (cinturini laterali o, talvolta, frontali).
2 – Stabilità del carico
Al fine di evitarne continui e talvolta pericolosi spostamenti a cui doversi opporre con sforzi muscolari aggiuntivi, lo zaino dev’essere il più stabile possibile, pertanto:
- spallacci ben stretti;
- cintura addominale allacciata e correttamente regolata (non troppo stretta, ma nemmeno lasca);
- il materiale più pesante (scarponi, borraccia, viveri, corda, alimenti, eccetera) dev’essere posto all’interno dello zaino; eventualmente è possibile tenere all’esterno la corda, ben fissata allo zaino mediante la patella e le cinghie porta sci o i variatori di carico, o la borraccia, se è possibile fissarla saldamente allo zaino (alcuni dispongono di un apposito porta borraccia sul fianco o in cintura).
Un appunto, che non riguarda il portamento ma è comunque rilevante ai fini del corretto utilizzo dello zaino, in merito all’abitudine di appendere all’esterno magliette, giacche e altro materiale di peso trascurabile: se proprio volete farlo (si asciugano molto più facilmente) e non avete a disposizione apposite tasche a rete, fate in modo che non svolazzino, non tanto per una questione estetica, quanto per non rischiare che s’incastri pericolosamente in rocce, alberi o cespugli e… per non darlo in faccia agli altri.
3 – Ergonomia dello zaino
Apparentemente la forma e la struttura di uno zaino potrebbero sembrare ininfluenti ai fini del nostro discorso, eppure uno zaino mal costruito potrebbe impedirne il corretto portamento, oltre a determinare una minore sopportazione del carico. Quali sono, pertanto, le caratteristiche che deve avere uno zaino per essere considerato un buon compagno di viaggio? Ovviamente il discorso è molto ampio, diversi distinguo andrebbero fatti, possiamo comunque individuare caratteristiche comuni a tutti gli zaini e indipendenti dall’utilizzo:
- gli spallacci devono essere larghi per distribuire la sollecitazione su una superficie maggiore, diminuendo il carico per centimetro quadrato;
- gli spallacci devono essere imbottiti per rendere più confortevole il lungo portamento con carico pesante;
- gli spallacci devono essere ricoperti con un tessuto morbido per evitare abrasioni sulla pelle qualora si portasse lo zaino a dorso nudo o con la sola canottiera;
- gli spallacci devono essere regolabili in lunghezza, se poi è possibile anche regolarne la posizione verticale rispetto al dorso dello zaino tanto meglio;
- devono esserci i variatori di carico, salvo per zaini di limitata capacità (30 litri o meno);
- deve esserci una cintura addominale, regolabile, larga, morbida e imbottita nelle zone di contatto con i fianchi;
- utilissimo, migliora la stabilità in discesa, il cinturino pettorale;
- i vari dispositivi di regolazione devono mantenere ben salda la regolazione impostata.
Anche qui una nota a margine: lo zaino dev’essere leggero e di capienza proporzionata alle esigenze, inutile sorbirsi il peso e la scomodità di un enorme zaino da 50 o più litri, magari anche corredato di telaio metallico, per un’uscita di uno o due giorni: imparate a selezionare il materiale portandovi appresso solo il minimo indispensabile, a quel punto un leggero e compatto zaino da 30 litri vi sarà più che sufficiente per la stragrande maggioranza delle escursioni, anche di due o più giorni.
Conclusione

Riassumendo, un corretto portamento dello zaino si ha quando:
- il fondo dello zaino è più in alto dei glutei;
- i due triangoli imbottiti da cui parte la cintura addominale risultano appena al di sopra della testa delle anche;
- la cintura addominale avvolge, per l’appunto, l’addome (e non il pube);
- lo schienale dello zaino appoggia, totalmente o in parte a seconda della sua forma e del tipo di zaino, sulla parte alta della schiena, da sopra la zona lombare alle spalle;
- gli spallacci sono ben aderenti al corpo, soprattutto nella zona delle spalle e dei pettorali;
- la patella di chiusura è più in alto delle spalle;
- tenendo il busto perfettamente verticale non ci si sente tirare all’indietro (per dirla in altro modo: per tenere il busto verticale non dovete sforzare i muscoli addominali).
Buon divertimento!
W la Montagna: whisky, pardon, escursioni a go-go
L’alpinismo può essere suddiviso in tre distinti settori: l’escursionismo, lo sci e l’arrampicata. Ognuno di essi identifica non solo un modo di frequentare la montagna, ma anche e soprattutto un’interpretazione concettuale dell’alpinismo, ovvero una filosofia.
Più l’alpinista incrementa le proprie capacità e, quindi, si spinge su difficoltà maggiori, più il concetto deve necessariamente evolversi e completarsi. Ecco che per l’arrampicatore sarà senz’altro più facile pervenire ad un rapporto paritario con l’ambiente, averne, cioè, minor soggezione, mentre l’escursionista rimarrà sempre condizionato da un più o meno intenso sentimento di timorosa riverenza.
D’altro canto, però, l’arrampicatore ha molto meno tempo per curarsi dell’ambiente che lo circonda e gli sarà più difficile vivere la montagna. L’escursionista, invece, può dedicare moltissimo tempo alla contemplazione della natura: può soffermarsi ad osservare i fiori, può godersi l’incanto delle forme e dei colori, può appostarsi in attesa di veder passare qualche esemplare della fauna. In sintesi, per l’escursionista è molto, ma molto più facile arrivare a capire e rispettare la montagna, ad entrare, cioè, in quel particolare atteggiamento che caratterizza il vero, l’unico Alpinismo: l’amore per i monti.
Ecco perché è alquanto importante non fossilizzare la propria attività in funzione di alcuni e solo alcuni aspetti della montagna, ma mantenere sempre vivo i sé il piacere della montagna per la montagna. L’Alpinista sa apprezzare qualsiasi momento, sa sfruttare al meglio ogni occasione, sa divertirsi col bello come col cattivo tempo, in compagnia come da solo, d’estate come d’inverno, in primavera come d’autunno.
“Viva la montagna”, fate vostro questo semplice motto e, liberandovi da ogni condizionamento pratico-mentale (esigenza di una meta, paura della montagna, timore di bagnarsi, competitività, eccetera), concedetevi la massima libertà d’azione: uscite dai binari della consuetudine per tuffarvi nell’immenso mare della fantasia.
Alcuni consigli
È nell’inventiva personale che potete trovare il massimo delle soddisfazioni, comunque, per coloro che… credono di avere poca fantasia, eccovi alcuni rapidi consigli.
- Qualsiasi bosco che non sia troppo spesso si presta al libero girovagare senza meta né direzione.
- I torrenti danno modo d’inventare un’infinità di piacevoli giochi e, in alternativa ai sentieri, possono rappresentare un valido e interessante percorso, sia in salita che in discesa.
- Il fondo delle vallate di origine glaciale, sempre molto ampio, permette di abbandonare i sentieri.
- Nei giorni di pioggia, boschi e pascoli consentono ugualmente l’effettuazione di piacevoli escursioni.
- Dopo o durante una nevicata il bosco assume un aspetto decisamente fantastico: avrete l’impressione di vivere nel magico mondo delle favole, e… occhio ai folletti, si divertono a fare scherzi di ogni genere.
Alcune raccomandazioni
- Non fate mai, e ripeto mai, più di quanto le vostre capacità tecniche vi possono obiettivamente consentire.
- In pratica, pur nel massimo trasporto, mantenete sempre un alto livello di autocoscienza e autovigilanza.
- Tale condizione è ottenibile operando ben al di sotto dei propri limiti tecnici e psicologici.
- Nei parchi, ma talvolta anche fuori da essi, è di solito vietato uscire dai percorsi segnalati.
- Evitate di uscire dal sentiero nelle zone geologicamente instabili, potreste arrecare danni irrimediabili.
- Uscendo dai sentieri, muovetevi sempre in piccoli gruppi, meglio ancora in coppia o, se ve la sentite, da soli.
- Mantenete il silenzio e se dovete parlare tra di voi fatelo senza gridare.
- Non infastidite la fauna, limitatevi ad osservarla.
- Non raccogliete esemplari della flora.
- Non danneggiate il bosco, se è troppo spesso evitatelo, se ci sono rami che ostacolano il passaggio non tagliateli ma se possibile cambiate percorso altrimenti spostateli con estrema delicatezza.
- Riportate a casa i rifiuti, siano essi inorganici che organici, non biodegradabili che biodegradabili.
Poesie di gioventù: Allegra compagnia
Allegra compagnia
amici sportivi.
Noi tutti della montagna amanti siamo,
della montagna inviolata,
della montagna solitaria.
Sia d’estate,
sia d’inverno,
le sue pendici affrontiamo.
Sciando o arrampicando,
sotto il sole o nella bufera,
noi sempre ridiamo,
allegra compagnia noi siamo.
Emanuele Cinelli – 20 gennaio 1974
Poesie di gioventù: Solitudine alpina
Solo cammino sugli alti nevai,
solo in mezzo a tanta immensità.
Il sole illumina, coi primi raggi,
le alte cime,
le lontane pareti di ghiaccio rosee risplendono.
Partito dal rifugio di primo mattino,
piccozza alla mano, ramponi ai piedi,
salgo verso la vetta.
Prima sosta, breve colazione,
poi riparto.
Esposto ai raggi del sole,
appeso alla liscia parete ghiacciata,
grondo di sudore,
ansimo dalla fatica,
però… continuo.
Ore 13: seconda sosta,
altro breve ristoro e poi in marcia.
La parete diventa più impegnativa,
dure placche di ghiaccio,
stretti camini.
Finalmente dopo ore di salita,
vedo la vetta vicina,
solo una fine cresta di neve
da essa mi separa.
Prima di affrontare quest’ultimo passaggio mi riposo.
Riparto con nuova spinta e vittorioso pensiero,
affronto la cresta con calma e coraggio,
qualche difficoltà,
“Vittoria”,
la vetta è raggiunta,
la tremenda montagna è sconfitta.
Prima ma non ultima solitaria
questa è stata la mia vittoria.
La sera è vicina,
raggiungo un pianerottolo e pianto la tenda.
Intanto il sole lentamente cala,
sparisce dietro le vette lontane,
sparisce inghiottito dall’orizzonte.
Ceno alla luce rossastra del tramonto,
e, mentre ceno, penso,
penso alla mia impresa,
penso al perché della mia vittoria.
Quando l’ultimo raggio di sole sparisce,
anch’io sparisco nella mia tenda.
Sdraiato nel sacco a pelo,
cullato dal sibilo del vento,
ritorno a pensare.
Ma i miei pensieri vanno lontano,
non più sulla roccia sotto i miei piedi,
non più sui ghiacci da poco affrontati,
ma torna in città,
torna dove ho lasciato amici e parenti,
torna a te.
Ti vedo felice dormire nel letto,
al caldo delle coperte,
protetta da mura di cemento.
Un brivido di freddo mi corre lungo la schiena,
la tormenta fuori si è alzata,
ah, come vorrei esser anch’io al caldo di casa,
ma per nulla al mondo rinuncerei a questa mia vita.
Una vita avventurosa,
una vita pericolosa,
ma una vita meravigliosa,
sempre a contatto con la natura,
sempre immersi nell’immensità.
Prima di assopirmi, ripenso a te,
decido di donarti questa mia impresa,
sul diario scrivo
“ore 21, ho vinto,
sulla vetta sono arrivato,
via Maria ho chiamato”.
Emanuele Cinelli – 15 gennaio 1974
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