Archivi Blog

La smania del… Perchè


Photo by Pixabay on Pexels.com

C’è una domanda che ricorre spesso nella relazioni tra persone: perché!

Perché arrampichi? Perché fai subacquea? Perché fai questo lavoro? Perchè stai compiendo questi studi? Perchè ti vesti così? Perchè ti comporti così? Perché stai nudo? Perchè questo? Perchè quello? Perchè? Per quasi qualsiasi cosa abbia fatto o faccia c’è sempre stato qualcuno, anzi ci sono sempre stati diversi che mi chiedevano il perché, e così è successo e succede a tanti amici, penso di poter dire che succede a tutti.

A prima vista può sembrare un comportamento naturale, insito nella istintiva curiosità dell’essere umano, ma, osservando che queste domande vengono soprattutto formulate per quegli atteggiamenti che escono da quello che la massa o colui che pone la domanda ritengono “normale”, non è che ci sia dietro anche o soprattutto un’educazione al conformismo? Non è che ci sia dietro la precisa volontà di una società improntata all’autodifesa e che, pertanto, insegna a chiedersi il perché delle cose prima ancora di conoscerle, prima ancora di provarle che è l‘unica vera via alla conoscenza e alla risposta (tant’è che spesso le risposte vengono rifiutate e contestate).

Vogliamo riappropriarci del piacere del fare, del piacere d’essere spontanei, di vivere secondo desiderio e non secondo altrui volontà, altrui raziocinio, altrui imposizione? Invece di chiederci il perché delle cose, facciamole, facciamo quello che la mente ci suggerisce di fare, quello che l’indescrivibile forza interiore del desiderio ci spinge a fare. Ecco, per vivere meglio, per vivere più felici, per rendere più semplici le relazioni interpersonali, per crescere ed imparare dobbiamo iniziare a fare e smettere di chiedere.

Basta con i perché, facciamo, facciamo, facciamo!

Poesie di gioventù: Baciarsi


Gesto d’amore,
gesto semplice,
gesto gentile,
posare labbra
sulle labbra.

Baciarsi vuol dire amarsi,
baciarsi vuol dire
esprimere i propri sentimenti.

Semplice è baciarsi,
semplice è compiere questo gesto,
semplice e…
per questo romantico.

Baciarsi è amarsi,
amarsi è volersi bene,
volersi bene è baciarsi.

Emanuele Cinelli – 26 marzo 1974

Poesie di gioventù: I love you, you love me.


I love you,
Io amo te,
questa è la prima verità,
questa è la mia gioia,
la mia e la tua felicità.

You love me,
tu ami me,
questa è la seconda verità,
questa è la tua gioia,
La mia e la tua felicità.

I love you, you love me,
il nostro felice amore,
il nostro gioioso vivere insieme,
questo è quello che abbiamo,
questo è quello che vogliamo
continuare ad avere.

Amore, io dico a te;
amore, tu dici a me,
ci comunichiamo quello che sentiamo,
insieme felici momenti passiamo.

I love you,
you love me.

Emanuele Cinelli, 26 marzo 1974

Poesie di gioventù: Sentimento


Profondo nel cuore,
profondo nell’anima,
io sento qualcosa
ma non riesco a scrivere cosa.

Sento un forte peso,
sento un’invincibile tristezza,
sento che voglio vederti,
sento che non riesco
a sopportare la tua lunga mancanza.

Sento di amarti,
sento di adorarti,
sento che tu sei
il mio più grande sostegno,
il mio più grande pensiero,
la mia più grande passione.

Sentimento,
oggetto astratto,
oggetto invisibile,
oggetto indescrivibile.

Emanuele Cinelli – 6 marzo 1974

Poesie di gioventù: Lontananza


Io a Ponte di Legno,
tu a Brescia.

Questo per sei giorni,
sei giorni e otto notti.

Troppo tempo,
troppo lontani.

Lontananza,
perché sei entrata nella nostra vita?
perché esisti?

Se non esistesse la distanza,
se tutto fosse vicino,
che bello sarebbe il mondo:
io, ora, vicino a te sarei
e tu, ora, vicino a me saresti;
noi due saremmo vicini
e insieme saremmo.

Ma la distanza esiste,
esistono le cose lontane,
esiste il dolore di non poter stare insieme.

Emanuele Cinelli – 6 marzo 1974

Desiderio, pudore e paure


Il sesso non è la prima ossessione della mia vita: ci metterei qualcos’altro al suo posto, la bellezza ad esempio – che poi non è un’ossessione.  Eppure siam cresciuti e viviamo in una società che ha fatto del desiderio e del sesso una leva che sposta le montagne, un grimaldello che apre tutte le porte. Non certo per condividere la varia umanità che ciascuno noi siamo… e insieme stupirne.

Ma per rubare. Fesso o spia chi non ruba in compagnia…

Siamo cresciuti bramosi: di sesso e possesso, di potere e piacere, di ricchezze e fortezze.

Se prendo a confronto il mio cane – sulle cose essenziali è mille volte più preparato ed equilibrato di me – dico che siam fatti tutto al rovescio. È spietata la “morale” canina, ma almen non ha maschere. Noi siamo anche peggio e ce ne facciamo mille ragioni: ce le facciamo, per costruirci una faccia accettabile: bulli, presuntuosi e crudeli che siamo.

Il desiderio dei cani è ben limitato: un osso ogni giorno, una femmina ogni sei mesi, a suo gentil gradimento. Il nostro è smodato, spudorato, immodesto; legittimato con marche da bollo dal Banco della Ragione.

Ipocriti fin nel midollo: di giorno in giacca e cravatta, rispettabil signori. Di notte, in vacanza, in privato, scatenati predatori, carnieri da esibire su Facebook. Non tanto perché davvero la lepre ci piaccia, ma più per quell’item da segnare sul libro dei conti.

Per aumentare lo sfizio del gioco ci siamo inventati ostacoli a iosa: altri timbri e consensi. E norma sublime: non tutto dev’esser per tutti, qualcuno è più uguale degli altri, i privilegi s’han da difendere, da condivider solo coi pari.

Da sempre il terrore è egregio strumento per tenere il popolo a bada (quanti ba-bau inventiamo ai bambini per “educarli” ubbidienti). La paura ci difende, ci dicono. Un popolo bue: del toro serve poi solo la forza-lavoro, n’est ce pas? Ma possono aggiungersi a personal discrezione fame o fatica, costrizione o dolore (così è forse nelle società più antiche, primitive o incivili e non nella nostra sana odierna democrazia occidentale).

L’inferno come spauracchio funziona: la fila dei dannati ogni giorno s’ingrossa!

Il paradiso, sublimato desiderio di tutta una vita, sarà nostra eterna ricompensa: anch’esso funziona – come carota.

Ghiribizzi che vengono in mente per provare a cambiare, vengon bruciati sul nascere come fanfaluche di carte d’arancio.

«Tu nudo?! Mai più!»

«Il diavoletto ti porta dritto all’inferno: via quelle mani da lì; tirati su le braghette!»

«Non toccarti o ti si staccan le mani?»

«Fai scappare l’angioletto!»

«Sei proprio un bel demonietto.»

«Gesummaria! Dove corri senza mutande?»

Giorno per giorno ci intossichiamo di nuove paure somministrate come elisir. Non prendono la via della ragione, che altrimenti le filtrerebbe, ma quello della presa emotiva, del ricatto affettivo, più ancestrali e indomabili.  Paure che sembrano frutto di oculata prudenza, di navigata esperienza, a spontanea insorgenza, di legittima istanza. E invece sono artificiali iniezioni, indotte pulsioni, psicofarmaci che agiscon men sulla mente ma dritte sul cuore, che fremente chiude tutti i battenti; tremante aspetta cessi il pericolo; ansante, fervente ed oblante fa voti e promesse che sarà bravo per sempre.

Se mi vedo nudo non mi faccio paura. Se faccio l’amore non mi vergogno. Se altri mi vedono culo e pisello non è la fine del mondo. Basta, per favore, con queste pantomime da esibir sulla pubblica piazza, da scherzi di birba che fa bau-sète. Basta con queste garrote che ci tengon col fiato sospeso in perenne agonia.

Sì sono un cane! Preferisco essere un cane, beato e pacifico. Son libero e nudo, come Diogene il cinico. Non sfido nessuno, non ce l’ho con nessuno. Solo, non voglio immaginarie paure che mi rendono angusta la vita, camicie di forza che mi fanno insanire. Per poi tenermi al guinzaglio con le stesse mie mani. Paralizzanti contratti di un sistema di vita che non ho mai sottoscritto. Mi ribello da me. Butto all’aria vestiti non miei, divise di esercito di una salvezza arretrata, compunte mutande che difendono un falso rispetto di sé.

Ceppi e catene svaniscon d’incanto solo che provi o m’azzardi a non pensarli esistenti, a pensarmi diverso. Non m’importa alla fine sapere o dar colpe a chi me l’ha imposti. Da oggi non sono e non saranno mai più. Non c’è fulmine che dal cielo m’inceneri al suolo: di Natura son figlio, naturali son “nostre vaghezze”; Natura non mi ha fatto lebbroso, piuttosto orgoglioso.

Son Giovannin senza paura, non temo gli scheletri che gli spettri mi gettan giù dal camino, e dico spavaldo: «Butta! Butta!» Passate tre notti nel castello stregato, mi sveglio il mattino padrone di tutto. «In fondo non è stato gran che! È bastato non abboccare all’amo di chi mi voleva metter nel sacco!»

Il nudismo mostra al mondo «di che lacrime grondi e di che sangue» il povero corpo dell’uomo, umiliato, martoriato proprio là dove altrimenti è fonte di vita e piacere. Chi è più alterato: la Natura che ci ha fatti così, o la società che ci vuole cosà? Mi vedo nudo dentro la mente: non ci sarei mai arrivato se non prima osando tramite il corpo, se non infrangendo cortine di vetro, ipocrisie; sfidando apparenze dissimulanti e mutanti.

Finché una paura ci oscura la vista, non riusciamo a vedere che qualcosa c’impedisce il libero azzurro del cielo.

Finché il pudore ci veste di timore e tremore, non sapremo davvero chi siamo. Se non proviamo a spogliarci, non sapremo mai come stiamo da nudi: ci potremmo stupire.

Finché avremo divieti, ci verrà desiderio d’infrangerli.

Sotto montagne di usi e costumi, fra desideri indotti e pressanti, che ci fanno indistinti nel “mucchio selvaggio”, dovendo poi sempre alla fine passare alla cassa, non sappiam più cosa sono personale unicità, biologica spontaneità, bestiale sincerità, naturale innocenza, umano candore… o ciò che meglio pensiamo di noi.

Sul pudore – 2


Segue dalla parte 1

Il “frutto proibito” è una invenzione culturale-ideologica allo scopo di giustificare dei limiti.

Da una parte si amplifica la componente di desiderio, dall’altra si è poi costretti a porvi un freno: fa parte di una certa ipocrisia del potere: il bastone e la carota. Gonfiando il desiderio, lo si porta fuori della misura stabilita dalla natura, si diventa suoi schiavi, si ipersessualizza la vita quotidiana: copertine di riviste, pornografia, pubblicità. Ma ecco che arriva il Catechismo  e vieta il sesso al di fuori del matrimonio (anche tra fidanzati: «L’amore umano non ammette la “prova”» § 2391), la masturbazione, ecc. («Tra i peccati gravemente contrari alla castità, vanno citate la masturbazione, la fornicazione, la pornografia e le pratiche omosessuali» § 2396) invitando alla purezza e castità (cioè, all’astensione – così facendo si è come costretti ad accettare il matrimonio: «meglio sposarsi che ardere» san Paolo, 1 Cor. 7, 9).

Se nel paradiso terreste non esisteva il pudore perché non v’era nulla di segreto o misterioso, con il divieto si è innescato un’attenzione smodata, un appetito indotto, concettualizzato, slegato dalla componente biologica (come la porta chiusa della favola di Barbablù). E per di più mai sazio, avido di possesso e consumo. Dico concettualizzato perché lascia libero sfogo alle fantasticherie, ai significati più disparati. Dietro quei vestiti, quelle mutande ci immaginiamo di tutto: e questo non è naturale, non è sano, non fa bene alle relazioni; quel che si nasconde riceve un surplus di attenzione a scapito del rispetto, dei dovuti modi, della reciprocità.

Ma allora è proprio il pudore che crea la malizia! È qui il corto circuito. E l’ipocrisia.

 Il pudore è dunque un quadro di riferimento comportamentale, un modo nel fare le cose. Spudorato è colui che “non ha modi”. Modestia è un buon sinonimo di pudore, a volte anche più intransigente. Deriva dal latino modus “modo, comportamento adeguato” ma anche “limite, misura, (e moggio)”. Di fronte a una esagerazione ancora oggi esclamiamo: est modus in rebus!). Da modus deriva anche moderazione, che abbiamo già incontrato ieri. I fatti devono avere una forma socialmente accettabile, una decenza (vedi art. 726 del codice penale). L’espressione “come si deve” è diventata anche aggettivo: un ragazzo come si deve.

La definizione di amore come “desiderio” è relativamente recente. I Greci davano per il dio Eros due genealogie diverse: la prima e più antica lo diceva figlio di Poros e di Penìa (dell’espediente/ingegno e della povertà/mancanza – cioè come raffigurazione allegorica della capacità dell’uomo di far fronte ai propri bisogni con l’impegno e l’inventiva). Il secondo Eros (raffigurato come monello che si diverte far a innamorare le persone scoccando le sue frecce a suo capriccio) semplicemente significa “desiderio, passione” ed è figlio di Afrodite, la dea dell’amore (in tutte le salse). Nel giudizio di Paride, fu Afrodite a ricevere il pomo della discordia, perché era stata giudicata più bella di Era e di Atena. Racconto biblico e mito greco hanno dei parallelismi.

Per quanto i difensori del pudore lo definiscano “naturale”, si tratta di un’etichettatura di comodo. Il pudore è invece un’invenzione umana, una convenzione sociale, un costume (ironia della parola!) Se fosse naturale, come il sonno, la fame, il respirare, lo proverebbero anche i cani («Miraut si vergognava, perché i cani avvertono la vergogna, sebbene ignorino il pudore» Louis Pergaud, Le roman de Miraut, chien de chasse, p. 129); ci sarebbe un “senso comune del pudore”, non ci sarebbe bisogno di ordinanze di sindaci che vietano di camminare nel centro storico a torso nudo o in costume da bagno. Si invoca l’autorità della natura per confermare opinioni che si sanno per deboli e non difendibili. La nudità è per antonomasia uno stato di natura.

L’istituto del pudore tramite la sua interiorizzazione si è trasformato in senso / sentimento.

Concludo con la frase centrale di un altro libro di Pergaud, La guerra dei bottoni (pubblicato nel 1912) che suona quasi come un manifesto:

«Per non farsi scassare i vestiti, non c’è che un mezzo: non averne. Perciò propongo che ci si batta biotti!»
«Biotti? proprio biotti biotti?!» esclamarono buona parte dei compagni, stupiti  e un po’ spaventati da una prospettiva tanto violenta che offendeva un pochettino il loro senso del pudore.
(Louis Pergaud, La guerra dei bottoni, trad. di Gianni Pilone Colombo. Milano, Rizzoli, 1978, p. 88)

Continua alla parte 3

Sul pudore – 1


Che vi si creda o meno, dalla Bibbia traggono origine convinzioni e comportamenti tuttora ben radicati nella mentalità, negli atteggiamenti e nelle leggi.

Nella Bibbia (Genesi 2, 25) troviamo il primo collegamento fra nudità e vergogna:

«E l’uno e l’altra, Adamo cioè, la sua moglie, erano ignudi; e non ne aveano vergogna.»

È vero, la Genesi è stata scritta a ritroso, quando le cose eran già assodate oppure cercavano una retrodatazione mitica (o divina) per potersi imporre autorevolmente e irrefutabilmente.

Sono del parere che il senso del pudore sia collegato al matrimonio e sia un prodotto del patriarcato. Il matrimonio può essere interpretato come una normativa eugenetica volta sia al mantenimento della coesione sociale che all’identità culturale e somatica di un popolo (“mogli e buoi dei paesi tuoi” – in questo senso può essere inteso come strumento “razziale” finalizzato alla riproduzione e propagazione delle proprie caratteristiche fisiche e culturali, fino ad ottenere la predominanza numerica e la supremazia sui popoli più aperti all’esogamia). A questo servono le norme che regolano la “scelta” della sposa, e in parallelo le sanzioni contro l’adulterio (per lo più della donna), la vedovanza, le consuetudini circa l’allevamento dei figli, la trasmissione della ricchezza (eredità) alla nuova generazione. Non si capirebbe altrimenti come mai il pudore sia focalizzato prevalentemente sugli organi della generazione.

La nostra esperienza di nudisti ci ha mille volte dimostrato che non è l’esposizione del sesso a “provocare” il desiderio. Anzi lo tempera in una misura che riconosciamo per adeguata e giustamente moderata, senza ulteriori implicanze di natura moralistica (è bene fin qui, oltre è peccato), deontologica (obblighi derivanti dall’essere fecondi – da cui certa ostilità al celibato e alle unioni “non procreative”), senza amplificazioni o deviazioni (sex appeal). Le camicie da notte femminili di non troppi decenni fa con l’apertura strategica che permettevano l’atto sessuale senza la visione del corpo nudo della donna, la consuetudine di far l’amore sotto le coperte o a luci spente, possono essere una dimostrazione.

Il concetto di “frutto proibito” (ritorniamo alla Genesi) può essere una “tecnica” per aumentare il desiderio sessuale (dentro e fuori il matrimonio), e per conseguenza attuare il comandamento divino “crescete e moltiplicatevi, riempite la terra”. Così come le varie norme per garantire la “discendenza” di sangue e patrimoniale, usate come modi di aggiramento del rigido vincolo matrimoniale.

Ho cercato invano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la parola “pudore” nel capitolo sui peccati contro il 6° comandamento. Non è lì, ma nel commento al 9° comandamento: “Non desiderare la donna d’altri”. Mi pare utile vedere alla fonte la posizione ufficiale della Chiesa:

     2521 La purezza esige il pudore. Esso è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l’intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.

     2522 Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell’impegno definitivo dell’uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell’abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione.

     2523 Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insorge, per esempio, contro l’esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti.

     2524 Le forme che il pudore assume variano da una cultura all’altra. Dovunque, tuttavia, esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto. Insegnare il pudore ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona umana.

   2525 La purezza cristiana richiede una purificazione dell’ambiente sociale. Esige dai mezzi di comunicazione sociale un’informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l’illusione.

     2526 La cosiddetta permissività dei costumi si basa su una erronea concezione della libertà umana. La libertà, per costruirsi, ha bisogno di lasciarsi educare preliminarmente dalla legge morale. È necessario chiedere ai responsabili dell’educazione di impartire alla gioventù un insegnamento rispettoso della verità, delle qualità del cuore e della dignità morale e spirituale dell’uomo.

     2527 « La Buona Novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell’uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli. Con la ricchezza soprannaturale, feconda come dall’interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo e di ogni età ».

 

In sintesi

     2528 «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28).

     2529 Il nono comandamento mette in guardia dal desiderio smodato o concupiscenza carnale.

     2530 La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza.

     2531 La purezza del cuore ci farà vedere Dio: fin d’ora ci consente di vedere ogni cosa secondo Dio.

     2532 La purificazione del cuore esige la preghiera, la pratica della castità, la purezza dell’intenzione e dello sguardo.

     2533 La purezza del cuore richiede il pudore, che è pazienza, modestia e discrezione. Il pudore custodisce l’intimità della persona.

Se leggiamo questi paragrafi con una certa malizia (o spirito critico, come preferiamo) scopriamo che il pudore serve a mantenere un’aura di mistero attorno alle cose che riguardano il sesso e la generazione (il frutto proibito).

Nietzsche [Nietze Source – cercare Scham Furcht  e cliccare sul risultato nr 8: Menschliches Allzumenschliches II: § WS — 69] osservava già nel 1879 in Umano, troppo umano che il senso del pudore esiste ovunque vi sia un mistero, e che in questo caso la “funzione apotropaica” del pudore consiste nell’allontanare la paura dell’oggetto misterioso [ritorneremo sulla relazione fra pudore e paura]. Se vogliamo interpretare “mistero” come rito gestito in esclusiva da una categoria sociale (sacerdoti), cominciamo a comprendere la finalità del pudore.

Antonio Martini, cui si deve la prima traduzione autorizzata della Bibbia in italiano (circa 1780) così commentava il versetto della Genesi: «Vers. 25. Erano ignudi, e non ne avevano vergogna. Non era ancora nell’uomo avvenuto quello strano cangiamento, per ragione del quale la carne desidera contro lo spirito, e lo spirito contro la carne. Nessun contrasto essendovi tra l’uomo interiore e l’esteriore, non eravi onde arrossire della nudità.» I nudisti sono dunque i più vicini alla condizione equilibrata, armoniosa e paradisiaca fra spirito e carne: sono puri di cuore e non vedono in corpo nudo necessariamente il peccato (o un’occasione prossima di peccato). Che sia stato proprio lo steccato, il discrimine di cui parlavo ieri, a creare il disordine?

Come si vede, il pudore ha radici molto profonde e motivazioni che rafforzano l’ordine sociale costituito e dato per scontato. Rifletterci potrà aiutare a sfrondare l’aura di misticismo e di timore (sacro, reverenziale…) che esiste attorno alle cose che riguardano il sesso e la generazione, riducendole a una misura più “umana” e secondo natura (anche “bestiale” o “biologica”), senza ad esempio l’amplificazione drogata di un “desiderio smodato” (v. sopra nr. 2529 – Ma qui le cose cominciano ad andare in corto circuito).

Continua alla parte 2