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Montagna: perchè accontentarsi dell’integrazione, passa all’inclusione!


Sentiero 3V "Silvano Cinelli"

Prefazione

Inclusione è una parola che, da almeno un paio di decenni, si utilizza molto al fine di indicare una più evoluta e corretta visione della vita comunitaria e sociale delle persone con disabilità, una visione che si pone come alternativa all’integrazione la quale, a sua volta, si era evoluta a partire dai concetti di esclusione e separazione (o segregazione).

In anni più recenti, l’utilizzo si è naturalmente esteso all’ambito dei migranti e, con un ulteriore salto logico, è possibile trasporlo a tante altre realtà, ivi compresa quella della nostra vita quotidiana, quella della vita in natura e, con relazione al tema di questo blog, quella dell’andare in montagna, sia esso fatto camminando che correndo, sia esso espressione di un corto cammino che di quello lungo e molto lungo.

Cosa differenzia queste quattro visioni della vita comunitaria? Vediamolo in breve.

Esclusione

Il “diverso” (tra virgolette in quanto in realtà siamo…

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Tu ci credi all’osteopatia?


 

asphalt clouds endurance grass

Photo by kinkate on Pexels.com

Preambolo

Gita di gruppo, stiamo piacevolmente camminando lungo una stradina che taglia incolti prati, gli occhi sono invasi dai mille colori del monte, la mente occupata a riconoscere essenze e memorizzare immagini. All’improvviso una fredda lama s’insinua nelle mie orecchie, rimbalza sui timpani, scuote gli ossicini, scorre spavalda lungo il nervo acustico e presuntuosa irrompe nel cervello: “recentemente sono stata dall’osteopata ma non ne ho sentito benefici, tu ci credi all’osteopatia?” “Aarghh, perchè sconvolgere sul nascere una giornata di escursione montana? Perchè impegnarsi in siffatti complessi discorsi? Va beh, facciamocene una ragione e un articolo!”

Prima di tutto una notizia: è cosa recente e magari a qualcuno è scappata, l’osteopatia è ora una disciplina medica ufficiale a tutti gli effetti, è stata riconosciuta ed è stato istituito il relativo ordine. Che ne deduciamo? Che al di la dei nostri personalissimi pareri nell’osteopatia ora ci credono anche i medici e gli scienziati, magari non tutti, ma la maggior parte si, le loro rappresentanze si, le istituzioni e il ministero competente. Questa potrebbe e dovrebbe essere risposta sufficiente ma… ecco anche il mio pensiero e la mia esperienza.

Io credo…

Credo che il nostro corpo abbia delle incredibili capacità autocurative, credo che la nostra mente sia in grado di fare molto più di quello che la stragrande maggioranza di noi, ivi compreso me stesso, riesce a fargli fare, credo che troppi medici si limitino a valutare la sintomatologia in funzione del solo ristretto specifico distretto, credo che si sia persa (o forse mai realmente trovata) la cooperazione tra specialisti dei diversi settori, credo che la medicina tradizionale si sia troppo allontanata dal concetto d’insieme e, salvo medici particolarmente illuminati, si sia opportunisticamente arroccata su posizioni che l’esperienza storica dovrebbe far intuire essere necessariamente provvisorie e quindi non ergibili a verità uniche ed assolute, credo che l’obiettivo primario dei medici dovrebbe essere quello di mantenerti in ottima salute e non quello di curarti quando ti ammali.

Credo che l’osteopatia e l’osteopata siano ad oggi quasi gli unici a guardare l’insieme del corpo, a prendere i sintomi e farteli scivolare addosso, farli interagire tra di loro e con l’intero corpo, trovare le loro connessioni, le origini più misteriose. Credo che l’osteopatia e l’osteopata siano oggi spesso la migliore soluzione per risolvere traumi muscolari e articolari, ma anche altro. Credo che allo stato attuale delle cose in assenza di fratture, dove l’osteopata potrà tornare utile solo a posteriori, solo in fase di recupero e riabilitazione, l’osteopata possa spesso essere la prima strada da intraprendere. Credo che all’osteopata ci si dovrebbe rivolgere prima di intraprendere percorsi sportivi (ma anche non sportivi) potenzialmente traumatici (ma quali non lo sono?). Credo che l’osteopata dovrebbe affiancarsi al medico di base e seguirci dalla nascita alla morte.

Risolve? Beh, visto quello che ho poc’anzi scritto direi che la mia risposta può essere solo affermativa, però voglio e devo specificarla meglio: l’osteopata non fa miracoli e la sua manipolazione, perchè l’osteopata non fa massaggi ma manipolazioni, se può talvolta apportare immediati benefici non necessariamente questo capita, la manipolazione attiva i meccanismi autocurativi del nostro corpo e questi sono meccanismi lenti, per sentirne gli effetti bisogna aspettare del tempo anche qualche mese.

La mia esperienza pratica

Primavera 2017, mi sto allenando per TappaUnica3V, da circa un mese ad ogni uscita in montagna dopo una decina di chilometri il ginocchio sinistro dolorosamente s’ingrippa, vi si aggiungono dolori diffusi ad ambedue le ginocchia: nelle discese il piegamento della gamba si blocca a un terzo della sua possibile estensione. Medico, radiologo, ortopedico, tac, ortopedico, tutti concentrati sul solo ginocchio sinistro e sul suo doloroso blocco articolare, nessuna considerazione per il resto. Dagli esami radiologici risultano solo segni artrosici diffusi e due esostosi, l’ortopedico dichiara che non ho nulla e mi prescrive solo l’utilizzo per alcuni giorni di cerotti antidolorifici. Ovviamente la situazione non si risolve, passano si i dolori diffusi, invero ignorati nel corso del protocollo medico, ma resta l’ingrippamento, oggetto delle visite e mia preoccupazione primaria.

Giugno dello stesso anno, ad un raduno sto parlando con alcuni amici del mio problema e dal gruppo limitrofo esce una persona che mi si avvicina e si presenta, è un osteopata, ha sentito quello che dicevo e, dopo avermi rassicurato sulle sue credenziali (decisamente di rilievo) si offre di farmi una manipolazione.  Accetto e… Subito dopo il trattamento sento solo il corpo molto più sciolto del solito, provo a fare una corsa sulla collina presente in zona, salita e discesa ripidissime con in mezzo un diagonale impegnativo: tutto bene, comunque il percorso è molto corto per cui mi riservo di valutare con uscita più lunga in montagna. Qualche ora dopo camminando avanti e indietro per l’ampio prato dove ha sede il raduno nitidamente avverto un’impressione strana, mi ci si concentro e… mi sembra di camminare sollevato da terra!

Nelle successive uscite, come del resto preannunciato dall’amico osteopata (“non aspettarti molto da una sola manipolazione”), l’ingrippamento del ginocchio si ripresenta, ci mette di più a uscire ma esce, a breve devo partire per il lungo viaggio di TappaUNica3V (130km e 9000m in unica tratta), che faccio? Visto che me ne aveva parlato l’osteopata mi procuro dei Tape e, studiandone l’utilizzo su Internet, li applico secondo quella che a mio parere è la soluzione più consona. Nell’ultimo allenamento tutto procede bene per cui mantengo il Tape anche per TappaUnica3V, dove purtroppo altri problemi mi fermeranno prima del tempo.

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Fine estate, si è man mano attenuato fino a svanire del tutto. Autunno inoltrato, nelle ultime settimane ho percepito dei cambiamenti nel mio fisico: il cammino è più leggero, l’appoggio più centrale, le ginocchia più sciolte. Osservandomi allo specchio noto che le mie gambe sono più dritte. Sarà effetto degli allenamenti alla tavola oscillante che ho introdotto sul finire dell’estate? Uhm, forse, ma sono più propenso a credere nell’effetto sul lungo tempo della manipolazione osteopatica, eventualmente in combinazione con il resto, resto con partecipazione secondaria. In ogni caso il problema al ginocchio non si è più presentato, sono risaltati fuori i dolori diffusi, si è stirato un legamento, ho avuto problemi in altri settori articolari, ma l’ingrippamento è completamente svanito, ma nessuno dei nuovi dolori è stato bloccante, nessuno è durato più di tanto (eccetto alcuni dolorini alle ginocchia legati ai segni artrosici diffusi, coi quali devo necessariamente conviverci ma la manipolazione osteopatica li ha alleviati), tutti svaniti nel giro di poco tempo. Beh, di certo un bel cambiamento e con una sola manipolazione.

“Emanuele, ci credi all’osteopatia?”

Si, si, ci credo all’osteopatia, eccome se ci credo, bisogna solo non aspettarsi miracoli e avere pazienza!

#TappaUnica3V: chiedi, chiedi, chiedi!


20151024_0010_def3VFin dal momento in cui ho annunciato l’intenzione di TappaUnica3V il suggerimento più frequento che ho ricevuto è stato quello di chiedere: “chiedi a chi l’ha già fatto”, “chiedi a chi corre i trail”, “chiedi a chi è abituato a percorrere lunghe distanze”, chiedi, chiedi, chiedi. Grazie, siete stati gentili e premurosi però…

Comprendo che viviamo in un’epoca in cui la norma è quella di percorrere sempre la strada più comoda e semplice anche a costo di scendere a compromessi, nell’era in cui alla formazione si è sostituita l’istruzione ad hoc, ovvero la specifica informazione utile a risolvere quel singolo problema. Si certo, comprendo queste e tante altre cose, però…

Sarò all’antica ma io preferisco ancora percorrere la più formativa strada della sperimentazione personale, dello studio, dell’analisi, dell’autocoscienza, l’unica strada che possa portare alla conoscenza, l’unica strada che possa darmi qualcosa e farmi crescere come escursionista, come sportivo, come persona. Grazie a questa metodica, e qui il grazie è grosso come una casa, ho potuto scoprire e imparare tante cose, non tanto su di me che a sessant’anni penso proprio di potermi conoscere a sufficienza (e caso mai TappaUNica3V mi sta dimostrando che è così), non tanto sulla montagna che quarantacinque anni di alpinismo qualcosa me l’hanno insegnato, quanto sulle nuove metodiche di allenamento, sull’evoluzione delle conoscenze in ambito alimentare sportivo, sui più correnti concetti di fisiologia sportiva, sui vari integratori, eccetera. Questo, insieme al piacere delle tante solitarie nude o vestite ore passate in montagna, è stato, è e sarà l’aspetto più rilevante e gratificante di questo mio stupendo viaggio.

Quindi… grazie, grazie per il vostro interessamento ma per favore smettetela, non insistete, lasciatemi sperimentare, studiare, conoscere, se proprio volete aiutarmi fatemi domande, fatemi parlare delle mie esperienze e nuove conoscenze di modo che le possa fissare e allargare.

Grazie!

Giorno verrà, tornerà il giorno in cui…


Altro mio vecchio articolo di montagna in buona parte ancora attuale.


Fino a non molti anni fa pochi o nessuno parlavano dell’avventura, era un termine comunissimo, tanto comune da non avere un particolare peso nei discorsi, un particolare effetto sulla gente. Ad un certo punto, però, tale parola comincia a diventare un potente mezzo di condizionamento: pubblicità, trasmissioni radio-televisive, articoli giornalistici, intere riviste ruotano e crescono intorno ad essa. Nasce il venditore d’avventura.

Nulla ci sarebbe di male se non fosse per il fatto che codesti imbonitori tendono, per logiche e ben comprensibili ragioni, a monopolizzare l’opinione pubblica, indirizzandola verso una visione alquanto parziale e, tutto sommato, errata dell’avventura: la ricerca del rischio.

Ovviamente non voglio contestare tale opinione in sé, ognuno è libero di pensare e agire come vuole finché non impedisce o limita l’altrui libertà, ma voglio obiettare sul tentativo di propagandarla come l’unica possibile, come la Verità assoluta e incontestabile.

È vero che anche nella definizione riportata nel vocabolario appare il fattore rischio, ma non come elemento dominante. Inoltre alla stessa voce compaiono anche altre definizioni, nelle quali il fattore rischio proprio non viene menzionato: vicenda singolare e straordinaria, caso inaspettato, eccetera. Così pure sui dizionari dei sinonimi e dei contrari alla voce “avventura” troviamo: caso, vicenda, avvenimento, episodio, evento, fatto, imprevisto, traversia, vicissitudine. Non compaiono, invece, termini come rischio e pericolo.

Ritengo pertanto inesatto e infondato il restringimento semantico “avventura = rischio”, e sostengo che l’aspetto essenziale dell’avventura risiede nell’incertezza della riuscita per effetto dell’ignoto: l’avventura non è la possibilità di farsi del male o di morire, ma l’impossibilità di prevedere il tutto, la possibilità d’effettuare incontri imprevisti, di trovare situazioni ed ostacoli che, per loro natura, richiedono capacità di adattamento e improvvisazione.

In sintesi possiamo dire che c’è avventura ogni qualvolta l’uomo, pur usufruendo di tutti i mezzi tecnici possibili, è l’artefice primo del buon esito della sua azione: lanciarsi da un ponte legati ad una fune e, magari, a cavallo di un grosso elefante di plastica, non è avventura ma esibizionismo, scarsa fantasia, o tutte e due le cose insieme. In tale azione, infatti, l’uomo deve limitarsi al superamento di ataviche e sane paure (istinto di conservazione), poi resta solo e soltanto un semplice osservatore degli eventi, sono i mezzi tecnici e non l’uomo a condizionare e permettere l’azione. Al contrario una tranquilla e semplice passeggiata tra i boschi può facilmente diventare una vera e propria avventura a causa di un improvviso e violento temporale, di un incontro con esemplari della fauna, e via dicendo.

L’avventura, in quanto protagonismo dell’uomo, è potenzialmente presente in qualsiasi nostra azione, nella nostra stessa vita. È quindi impossibile parlare di alpinismo senza automaticamente parlare di avventura. Il programmare le escursioni o le ascensioni, il prepararsi alla giusta azione, il rapportarsi con semplicità e onestà alla montagna, non privano l’alpinismo dell’avventura, ma lo arricchiscono di un qualcosa che va ben oltre il puro e semplice piacere materiale: la soddisfazione di vivere.

IMG18 - Roccette finali

Alpinismo, vivere in


Un altro mio vecchio articolo di alpinismo e montagna.


Certamente l’alpinismo è ideologia, attività sportiva, gesto tecnico, gioco, gioia e… dolore, ma, soprattutto, è e deve essere dialogo con la montagna.

L’uomo e la montagna

IMG18 - Roccette finali (Copia) Molto tempo è passato da quando si vedeva nella montagna un possente dio, tre secoli sono trascorsi da quando si riteneva che l’alpe fosse popolata da draghi e demoni, eppure ancora oggi il rapporto tra l’uomo e la montagna è fortemente condizionato da quello stesso sentimento di paura che, per migliaia e migliaia d’anni, ha impedito l’esplorazione e la colonizzazione delle Alpi e dei monti di tutto il nostro pianeta. Anche fra gli stessi alpinisti è tutt’altro che infrequente sentir affermare che la montagna è pericolosa.

Ma è veramente pericolosa questa montagna?

Dobbiamo innanzitutto distinguere tra pericolo e rischio, due termini spesso usati come sinonimi ma in realtà differenti tra loro: il primo è caratteristica propria di un oggetto, il secondo è determinato dall’azione umana.

Allora, si la montagna è pericolosa, così come lo è una strada, il mare, un fiume, ma anche una pianta, una casa o un palo che possono, per loro stessa natura, crollare improvvisamente a terra e casualmente ferire o uccidere qualche passante. D’altra parte la montagna è anche un oggetto nelle mani dell’uomo ed è l’azione dell’uomo che può determinare o meno la presenza del rischio, è l’errore umano che causa l’incidente. È, quindi, l’uomo e non la montagna ad essere l’artefice del pericolo.

Un esempio: il crepaccio esiste in quanto logica conseguenza del movimento verso valle del ghiacciaio, l’alpinista che vi cade dentro non può certamente incolpare la montagna del suo incidente, ma deve prendersela con sé stesso, con la propria imperizia, imprudenza o negligenza. Non è stato un agguato del monte all’uomo, ma solo e semplicemente un attentato dell’uomo nei suoi stessi confronti.

L’autocontrollo e l’autocritica sono qualità indispensabili e l’alpinista deve serenamente svilupparle a completamento della preparazione tecnica. È inutile, oltre che ingiusto, imputare alla montagna delle colpe, darle un’etichetta che assolutamente non le si addice, è, questo, un comportamento che consente di rimediare artificiosamente una comoda scusa per evitare il confronto con sé stessi, con il nostro “io” misterioso diverso da quello che pretendiamo di conoscere. Per l’alpinista è necessario abbattere le barriere psicologiche che l’evoluzione tecnica non ha potuto e mai potrà eliminare.

Alpinismo solitario

1760 (Copia)Vago solingo fra i boschi più neri,
nei vasti pianori,
sui fianchi del monte,
fra i bianchi ghiacciai.

Vago solingo e osservo:
negli occhi mille colori,
mille forme si dipingon.

Vago solingo e odoro:
mille profumi m’invadon le nari.

Vago solingo e ascolto:
cantano gli augelletti,
sibila il vento,
recita l’acqua del torrente,
scricchiola il ghiaccio che rompe.

Nulla disturba l’intimo contatto:
non schiamazzi di gente,
non amici che distolgon la mente,
nulla.

Vago solingo, ma solo non sono:
la Montagna mi accompagna,
mi parla, mi ascolta, mi aiuta.

.

L’alpinismo solitario è un’esperienza indimenticabile, un’esperienza che tutti dovrebbero provare, una lezione di umiltà e di amore.

Molti negano ciò sostenendo, al contrario, che l’alpinista solitario è essenzialmente un incosciente, nulla di più sbagliato. L’incoscienza non c’entra proprio per niente, contano, invece, la voglia d’imparare, il desiderio di conoscere, la ricerca spirituale e l’amore. Per praticare l’alpinismo solitario non occorre coraggio, ma è sufficiente abbandonare la posizione di padroni dell’universo per avvicinarsi alla montagna con il solo intento di viverla, non per dominarla e conquistarla.

Preso possesso di questi semplici sentimenti, provate a inoltrarvi nel luogo più sperduto e silenzioso che conoscete, andateci da soli, in punta di piedi e senza violenza, sedetevi e liberate i sensi, lasciate scorrere i pensieri. All’improvviso sentirete i mille rumori che sono la voce del monte e vi accorgerete che il silenzio è solo un’apparenza, che il silenzio non esiste, ma eravate voi incapaci di sentire. Avete, così, imparato ad ascoltare e la montagna vi parla.

Certamente la più grande paura che frena l’uomo di fronte all’esperienza dell’alpinismo solitario è la totale impotenza dell’uomo solo, ma tale sentimento è anche il più valido aiuto di cui disponiamo per capire i messaggi del monte. Infatti la nostra impotenza ci serve per meditare sulle presunzioni umane e per imparare a controllare ogni nostra azione, anche la più piccola e semplice.

Alzatevi, ora, e camminate nella solitudine. Quando il sudore vi bagna la fronte, quando il fiato diventa pesante, quando la fatica appesantisce le membra, quando vi sentite indifesi o disorientati, ascoltate le voci del monte, vi accorgerete che la montagna è con voi per assistervi e proteggervi. All’improvviso le forze ritorneranno in voi e la fiducia s’impadronirà della vostra mente, scacciandone il terrore. Avete così imparato a comprendere le voci del monte e la montagna vi accoglie.

Imparando ad ascoltare e a comprendere si capisce che la montagna non è un nemico, ma un’essenza viva, un’essenza che può e deve diventare la nostra stessa essenza vitale.

Perché arrampichi?

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Gita di gruppo, seduto davanti al rifugio osservo le cordate impegnate sulla sovrastante parete e penso alle mie prossime ascensioni.

Perché arrampichi?

La domanda mi giunge a bruciapelo esplodendomi nel cervello e togliendomi bruscamente dalle meditazioni. Sulle prime resto incapace di ogni pensiero, ma passato il frastuono dell’esplosione, le idee cominciano a ronzare come api impazzite, mi è impossibile ordinarle secondo logica.

Già, perché arrampico? Quante volte me lo sono chiesto, quante volte me l’hanno chiesto, e mai mi è riuscito di dare una risposta esauriente. Perché mi piace, perché mi diverte, per l’ebbrezza del vuoto, per il confronto con la paura, perché di si, perché, perché, perché. Mille risposte, tutte valide ma tutte incomplete in quanto dietro quella la semplice domanda si nasconde un quesito molto più profondo e complesso: l’arrampicata è scelta di vita o inutile rischio di morte?

Stavolta voglio provare ad esaurire l’interrogativo e comincio un viaggio mentale nel mio passato, ripercorrendo le tappe della mia storia alpinistica.

È la curiosità a spingermi a provare l’arrampicata. I primi approcci sono senza convinzione e la paura è tanta, ma con l’acquisizione delle giuste conoscenze mi rendo conto che il pericolo non è implacabile e che, con un adeguato controllo delle mie azioni, posso ridimensionare i rischi, mantenendoli entro dei limiti tollerabili.

Con la successiva esperienza pratica giungo a verificare che quando il mio corpo e la mia mente diventano parte stessa dell’ambiente, il rischio svanisce completamente.

L’acquisizione dello stato di simbiosi e l’eliminazione dei timori ancestrali mi consentono di cominciare a percepire la parete, il mio movimento e le forze che la natura mi oppone. Conseguentemente posso adeguare le mie gestualità a finissime esigenze meccaniche e morfologiche e la mia progressione diviene dinamica espressione dei miei sentimenti e delle mie sensazioni: arrampicare è armonia, sentimento, esaltazione dell’essere e del vivere, gioia profonda; il rocciatore è la roccia, il cielo e l’aria..

Perché arrampico? Perché amo la vita e arrampicare è arte di vivere. Non cerco emozioni speciali o conquiste sensazionali, ma semplicemente mi sento albero e come l’albero continuo a salire sempre più in alto alla ricerca del sole, del sole che è fonte di vita. Anche se mai potrò raggiungerlo, sempre guarderò e camminerò verso di lui, imparando dalle albe e dai tramonti, meditando sul passato, sul presente e sul futuro, crescendo insieme all’energia ch’esso m’infonde. E così insegnerò, come l’albero insegna ai rami a fare nuovi rami e a questi a fare i frutti, frutti che produrranno il seme generatore di nuova vita.