Archivio mensile:febbraio 2016

Orientamento naturale


2037È notte, le vie della città sono pressoché solitarie, un uomo è fermo all’angolo d’una piazza e si guarda attorno a ripetizione, il viso teso e gli occhi sbarrati denotano una forte tensione. Guarda a destra, avanza di qualche passo, si ferma. Secondi di pausa, la testa nervosamente si volge prima da un lato poi dall’altro, si alza e si abbassa, lo sguardo costantemente verso l’alto nel tentativo d’evocare immagini pregresse. Si gira, ritorna sui suoi passi, prende una strada dalla parte opposta, avanza leggermente e nuovamente si ferma. La scena si ripete, la testa che gira, lo sguardo fissatamene alto, movimenti nervosi, sospiri. La tensione cresce, l’espressione sta pian piano commutando verso la paura. Si siede a terra, stanco e sfiduciato, si siede con la testa tra le mani, decide d’attendere il passaggio di qualcun’altro: s’è perso, ricorda d’essere già passato da questa piazza eppure nessuna delle strade che da essa divergono gli danno la giusta sensazione, gli indicano la strada corretta. Disperato attende, sperando l’arrivo di qualcuno.

Passano i minuti, l’uomo sempre più depresso è ancora seduto a terra, ogni tanto alza la testa e si guarda attorno per vedere se c’è qualcuno, ma niente: nessuno passa da quella piazza! Altri interminabili minuti, un rumore di passi, l’uomo alza la testa, sul muro della casa di fronte un ombra si rende sempre più evidente. I passi diventano più distinti, l’ombra più grande e nitida, l’uomo si alza e si incammina ad intercettare la persona in arrivo. S’incontrano, l’uomo ferma quella persona, parlano, gli occhi dell’uomo s’illuminano, la tensione s’attenua, insieme s’incamminano per una strada laterale e svaniscono nel buio della notte.

Un chilometro di distanza dalla piazza, una fila di case, nel mezzo l’insegna di un piccolo albergo, la strada sbarrata da un lato sull’altro s’allunga verso le luci della città. Due ombre lontane si fanno man mano più vicine, l’uomo e il cordiale passante arrivano davanti all’albergo, si stringono la mano, l’uomo abbraccia a lungo il provvidenziale passante, questi gli sorride e gli pone in mano un bigliettino da visita, l’uomo la guarda, lo legge, un cenno affermativo fatto con la testa, si sorridono, ultimi saluti, l’uomo entra in albergo mentre l’altro riprende la strada della città.

La nebbia ricopre il desolato e selvaggio pianoro alpino, silenzio profondo, nessuna traccia di sentiero, solo erba e rocce si dividono l’areale, non ci sono pareti o pendii che possano dare una minima idea di direzione. Un’ombra si forma al limitare dello spazio visibile, avanza decisa e senza nessunissima esitazione si muove nell’erba zigzagando tra le rocce. L’ombra diviene più nitida, i lineamenti si fanno riconoscibili, è lui, è quell’uomo che pochi mesi prima disperato s’era accasciato a terra nella piazza cittadina. Sul berretto campeggia una scritta, il marchio d’una scuola, il nome d’un corso: PEARL, Orientamento Naturale, Istruttore.

È comune ritenere e affermare che ci siano qualità assunte con la nascita e in seguito impossibili da costruire. Certamente è vero che ci sono predisposizioni innate, d’altra parte è anche vero che tutte le qualità e le capacità si possono acquisire anche in seguito: se un fuoriclasse è arrivato ad esserlo in modo spontaneo e senza fatica proprio perché aveva in sé delle doti innate, chiunque può diventare un campione, deve solo volerlo e applicarsi a fondo.

Uno dei luoghi comuni più forti è quello che riguarda la capacità di orientamento a torto dai più ritenuta dote innata e non acquisibile. Al contrario, tutti, ribadisco tutti, possono fare come l’uomo del racconto introduttivo ed imparare ad orientarsi in modo naturale, ovvero acquisire la capacità di orientarsi anche senza l’ausilio degli strumenti all’uopo creati: cartine topografiche e bussola. È facile farlo e servono poche cose: crederci e provarci. Provaci anche tu, partecipa al corso di orientamento naturale, apprenderai tecniche e affinerai capacità che potranno tornarti utili in tanti altri contesti, ne uscirai rinforzato in te stesso.

Non è un classico corso di orientamento e topografia, non si useranno cartine topografiche e bussole, non sarà nemmeno necessario portarsi sui monti, andare in luoghi reconditi e misteriosi. D’altro canto è un corso ottimamente sinergico coi classici corsi di orientamento e topografia. Provaci!

PEARL Galaxy – Corso di “Orientamento naturale”

#TappaUnica3V: inciampi, scivoloni e spinate


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La montagna è la montagna a volte dolce a volte salata!

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Bocca del Zuf

In attesa che la neve recentemente caduta si squagli questa domenica mi sono inventato un altro giro tutto particolare, ma prima di parlarne un avviso ai naviganti: abbiate pazienza, tutti gli itinerari che ho fatto e che farò verranno adeguatamente relazionati in appositi articoli, promesso!

Partenza veloce da Cariadeghe tra fortissime e fredde folate di vento. Senza sosta, se non per scattare un paio di foto, mi fiondo sul versante opposto della Bocca del Zuf, stretto valico che mette in comunicazione l’altopiano di Cariadeghe con la Valle di Caino. Ahia, dopo le tante discese fatte a rotta di collo proprio su un tratto pianeggiante e praticamente da fermo metto male un piede che si storce bruscamente stirando leggermente i legamenti della caviglia, sia quelli interni che quelli esterni, la massaggio qualche secondo, controllo l’allacciatura delle scarpe e, deciso, riparto.

Eccomi al bivio dove inizia il Senter Bandit, lungo percorso che attraversando più o meno a mezza costa tutto il versante settentrionale del Monte Ucia prima e del Monte Dragoncello poi mi porterà verso la sella di San Vito. Un comodo diagonale adduce ad un crinale erboso, mi fermo per scattare una foto, mentre ripongo la macchina fotografica approccio il primo passo e… sbang mi trovo lungo e disteso a terra: mi sono inciampato in una radice sporgente. Aho, oggi cosa ho addosso, sarà meglio concentrarsi di più.

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Sentiero evanescente

Riprendo il cammino, con più attenzione seppure senza calare il passo. Seguendo le indicazioni della relazione e i segni di vernice abbandono una stradina sterrata a cui ero arrivato per salire ripidamente un residuo di frana, i segni di vernice sempre abbondanti tagliano a mezza costa il bosco, esili tracce di passaggio tra le foglie secche che coprono un terreno ormai non più inciso, scivolo, scivolo a ripetizione. Cinquanta metri sotto di me la stradina poco prima abbandonata e dal suo tornante un’altra che sale e pare incrociarsi con il mio “sentiero”, scendere è possibile ma per sicurezza procedo ancora lungo i segni di vernice finché una traccia netta scende verso la stradina dove un segno bianco rosso campeggia netto sul tronco di un albero: vattelapesca, potevo evitarmi questo brutto tratto e seguire la strada.

Su questo migliore tracciato recupero velocità e tranquillità, in breve arrivo al bivio con altro sentiero segnalato, devo seguirlo brevemente in discesa fino ad un bivio solo che il bivio io non lo vedo, o, meglio, ne vedo uno che pare solo portare a un capanno di caccia per cui l’ho velocemente ignorato. Nel dubbio di scendere troppo continuo e continuo, le note della relazione sembrano conformarsi a quello che incontro. Ripida discesa per un scivoloso canalino, giù, giù, sempre giù, “non è che ho saltato il bivio e arrivo a Caino? Va beh, ora indietro non torno, male che vada risalgo a San Vito per il 3V!” Con questo pensiero in mente continuo a seguire i tanti segni di vernice e le tracce di passaggio finché una tabellina segnaletica mi toglie ogni dubbio: sono sulla strada giusta!

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Forche caudine

Breve ripidissima salita su traccia ben evidente, un grosso groviglio di rami impedisce il passaggio, faticoso e complesso aggiramento su massi di frana, riprendo la traccia. Alberi caduti mi costringono a gattonare o a fare pericolosi scavalcamenti: va bene lasciare il bosco alla sua natura ma costringerei coloro che hanno voluto e approvato la legge che impedisce il taglio degli alberi caduti a provare che vuol dire incontrarli quando le gambe sono dure e il fiato corto, magari sotto un forte temporale.

Da un pulpito roccioso lo sguardo cade sui capannoni della ferriera di Nave, la traccia prosegue a mezza costa, salendo e scendendo a seconda della convenienza, supera qualche piccolo sperone roccioso, sccccvisccc, una piatta pietra inganno l’occhio e il piede scivola, di solito sarei rimasto perfettamente in piedi ma oggi, boh, oggi sembro ubriaco, non finisco a terra solo perché il pendio alla mi sinistra è ripido e posso appoggiarmi con la mano. Forse sto andando troppo veloce per il tipo di terreno, rallento sensibilmente e procedo con circospezione.

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Nave

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Muro di spine

Su e giù, su e giù, poi giù, giù, mi sembra di toccare con mano le case di Nave quando un bivio si pare innanzi ai miei occhi, è il bivio per Nave, ormai dovrebbe essere una tranquilla passeggiata arrivare alla sella di San Vito. In effetti la traccia da seguire è nitida e bella. Lo dico sempre, mai e poi mai fare predizioni: i tratti puliti si alternano a… spine, spine, spine, un fracco di spine, di più, un muro verde che riesco a penetrare solo perché è inverno, non senza danni comunque. Non vedo l’ora d’esserne fuori, alla mia destra da tempo ormai vedo il crinale della sella di San Vito, la il sentiero lo conosco ed è pulito, pulitissimo, dai, dai! Per quanto avanzi lui resta sempre la, mannaggia. Alla fine ci arrivo, nella voglia di raggiungerlo, senza più badare alle spine che mi fustigavano a sangue, dimentico dei cinque chili di zavorra infilata nello zaino come sovraccarico, l’ultimo tratto in ripida salita l’ho fatto ad una velocità incredibile ed ora sono qui ansimante e distrutto, sopra di me la dura salita che porta verso la cascina del Dragoncello. Potrei evitarla, potrei scendere a prendere la stradina che porta a Castello di Serle e da li risalire, sempre per stradina, al ristornate di Val Piana a pochi minuti dalla macchina, ma no, sono qui per mettermi alla prova, stringo i denti, rallento il passo, effettuo frequenti brevi fermate, controllo i crampi che stridono nei quadricipiti e… ecco superato anche questo, orami è fatta, da qui alla macchina è una semplice passeggiata.

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Finalmente sul bel sentiero del Dragoncello

Che giornata, che uscita incredibile, che bel giro, ho finalmente trovato un sentiero ottimamente segnalato, veramente, pochissimi i punti dove mi sono dovuto fermare a cercarlo, peccato lo stato in cui versa la parte del senter Bandit, meriterebbe più considerazione.

Vi risparmi la solita tiritera dei tempi di marcia, che si aggirano comunque attorno al 50% delle tabelle, in genere quando vado in montagna non bado ai tempi, qui lo sto facendo solo per poter poi relazionare i percorsi (appena ci riesco) in modo attendibile, per monitorare l’avanzamento del mio allenamento, per darmi la certezza di potermi gestire al meglio durante il giro finale, di poter facilmente compensare eventuali imprevisti e ritardi.

Alla prossima mie cari lettori!

P.S.

Sto maturando l’idea di riunire, a fine cammino, questi mie rapporti in un libricino, un racconto del mio viaggio attraverso le montagne, attraverso il sentiero 3V “Silvano Cinelli”, attraverso le dolci sensazioni rilasciate dai muscoli caldi e affaticati, attraverso i pensieri dei tanti momenti di solitudine. Che ne pensate?

Scarpe da montagna La Sportiva Ultra Raptor GTX


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Sul finire dell’estate 2014 scopro che le mie magnifiche scarpe da escursione dopo all’incirca sole cento ore di utilizzo iniziavano a mostrare grossi segni di usura, nel giro di pochi giorni i segni di usura erano diventati evidenti grossi danneggiamenti. Andato subito dal negoziante presso il quale le avevo acquistate esattamente undici mesi prima sono stato indirizzato ad un riparatore ufficiale il quale, però, le ha guardate con espressione schifata e, senza proferir parola, me le ha rimesse in mano scuotendo la testa in segno negativo. A quel punto scrissi alla casa madre per sapere se c’era modo di ripararle, ottenendo una risposta che mi ha fatto saltare la mosca al naso e risposi che mi sarei rivolto ad altra marca.

Visto che arrivava l’inverno e le previsioni escursionistiche erano pressoché pari a zero, rimandai ogni decisione d’acquisto, usandole nel frattempo così come erano. Tutto sommato, ci si camminava ancora bene e resistevano senza subire ulteriori danni e così solo a luglio 2015 mi decisi all’acquisto delle nuove scarpe. L’arrabbiatura ancora bruciava in corpo, però s’era molto smorzata e si è fatta del tutto spegnere dal pensiero di come mi ci ero trovato bene. Prima sul sito e poi in negozio constato piacevolmente che nel nuovo modello le parti che mi si erano così presto danneggiate erano state completamente ridisegnate, utilizzando un materiale diverso. Così mi ritrovo in montagna con ai piedi questa evoluzione delle precedenti.

In buona parte questo modello risulta identico a quello di prima per cui a titolo generale richiamo l’altra scheda tecnica e qui mi limito a parlare delle modifiche apportate e delle nuove esperienze.

IMG_8494Subito il negoziante mi segnala di provarle per bene dato che, anche se a prima vista non si nota, la calzata è diversa dalla precedente. In effetti sono decisamente più strette, devo prendere un mezzo numero in più, l’ideale sarebbe stato un quarto di numero in più (quarantaquattro e tre quarti), che però non esiste. Al lato pratico questa differenza di calzata comporta che, nel mio specifico caso, questo nuovo modello mi fascia il piede meno bene del precedente, lo sento meno mio, specie in punta e nell’arcata plantare interna.

A parte questo piccolo inconveniente devo dire che sono assolutamente contento dell’acquisto fatto: a seguito degli allenamenti per la mia TappaUnica3V, le sto utilizzando in modo molto assiduo, nelle condizioni più varie, nel fango e nella neve, sulla roccia e sull’erba, perfino sul ghiaccio, con tempo asciutto e sotto la pioggia, su strada asfaltata e su sentiero, anche in brevi facili tratti di arrampicata, sottoponendole a un carico considerevole, massacrandole attraverso lunghe escursioni a passo sostenutissimo e scabrose discese fatte anche di corsa. Nonostante tutto questo, nonostante le cento ore di marcia siano ormai raddoppiate, il fascione è ancora perfettamente integro e non si rilevano scollature tra la tomaia e la suola (che erano i due tipi di danneggiamento rilevabili sul precedente modello), solo la suola presenta qualche piccolo segno d’usura, in particolare nell’arcata interna dove l’appoggio violento su alcuni sassi ne ha asportato un piccolo pezzo, d’altra parte se si uvole una suola con un grip tanto elevato questa dev’essere necessariamente morbida e una suola morbida è ovviamente più delicata.

A proposito del grip della suola, veramente eccezionale su ogni tipo di terreno, in quest’ultimo periodo avendola utilizzata a temperature prossime allo zero ho rilevato che in tale condizione la suola s’indurisce sensibilmente e, pur mantenendo comunque un elevato confort, diminuisce l’aderenza sulle superfici dure quali le pietre, il cemento e l’asfalto.

IMG_8493Il sistema di allacciatura è ottimo anche se risulta difficile mettere bene in tensione la parte della punta; le stringhe sono un po’ lunghe (probabilmente perché per la differenza di calzata le devo tirare di più rispetto a prima) e tendono ad allentarsi leggermente, senza però slacciarsi (cosa successa solo recentemente a causa della neve che gelava sull’estremo della stringa creando un grumo di ghiaccio che, strofinando sulla neve, tirava la stringa). Il passante sulla linguetta sebbene non blocchi completamente lo scivolamento laterale della stessa, la mantiene in posizione ottimale.

IMG_8492Il plantare è completamente diverso dal precedente, all’uso pratico non ho rilevato particolari differenze, né in peggio né in meglio, devo solo evidenziare che se prima s’infilava senza problemi nella scarpa, ora non scivola e si fa fatica a posizionarlo correttamente.

L’impermeabilizzazione data dalla membrana in Goretex sembra essere leggermente migliore a quella, già ottima, del precedente modello, così pure l’isolamento termico: proprio recentemente cinque ore nella neve, con temperatura prossima allo zero, senza sentire freddo ai piedi, i quali, tra l’altro, sebbene l’interno delle scarpe risultasse bagnato, erano asciutti e senza i classici segni di lessatura.

Finisco notando che da quando uso queste scarpe i miei problemi alle ginocchia sono diventati sempre meno evidenti, anzi, pur risentendoli ogni tanto nella vita quotidiana, quando sono impegnato nelle escursioni scompaiono completamente.

Queste saranno le scarpe che mi accompagneranno nel mio lungo solitario cammino di TappaUnica3V.

Per i dati tecnici rimando alla pagina specifica sul sito de La Sportiva.

Secondo natura


Decenza e castità

Con la condanna della nudità passa l’ossessione del sesso, anzi ne è lo strumento (e lo straniamento). La decenza diviene metro del ben vivere, del buon costume, delle cose a modino. Sesso compulso e castità idealizzata sono gli estremi polari della medesima ossessione, del medesimo tabu, di un terreno ominoso costruito ad arte per indurci falsi timori e tenerci al guinzaglio in una insicurezza e disistima che ci impedisce di vedere con occhi neutri l’ovvietà e naturalità del sesso. In tal modo il sesso diventa innaturale, come tutti gli eccessi. Da una parte la mela proibita suscita un desiderio intemperante, siamo sempre sovraeccitati, inappagati, alla rincorsa insaziabile di un di più. Dall’altra passa una particolare concezione dell’attività sessuale, che, proprio perché “costruita”, messa addosso alla nostra natura, è ben lungi dall’ottenere gli effetti desiderati, accentua la dismisura, la sregolatezza, la perversione e, in buona parte, un certo innaturale disadattamento, un indotto disagio, una disistima di sé e del naturale affidamento alle nostre facoltà e capacità, un vago sentore di essere impari, inadatti, non all’altezza della bisogna… diventa un’impresa, un’avventura. Cui si accompagna un disvilimento del corpo, un disvalore della natura in sé, confrontata e contrapposta all’uomo e alle sue superbe conquiste e vittorie (“le magnifiche sorti” di cui parlava Leopardi), e quasi nemica, matrigna. Si dice che proprio tale distanza dalla natura sia ciò che più ci fa uomini.

Correre

Non so che gara sia questa: son cose più grandi di me; che presunzione stia alla base di tale cultura. Fatto sta che ci è rimasto l’anelito alla vittoria, il desiderio della sfida, come “campo” in cui esprimiamo il “meglio” di noi e ci spinge compulsivamente verso nuovi traguardi, ci spreme le forze verso la conquista di record sempre nuovi e più avanzati. (san Paolo 1Corinzi 9,24-27 – nei pressi di Corinto si svolgevano nell’antichità i Giochi Istmici, e dunque gli abitanti potevano ben comprendere la similitudine).

Non so chi abbia reinventato le olimpiadi della nuova era. Gli ideali olimpici ci sono entrati nel sangue, l’arena di lotta il nostro pane quotidiano, lo stadio la proiezione della nostra affermazione nella società, dell’aggregazione attorno al podio del vincitore, clacsonando come in corteo nuziale dietro il carro di trionfo di altri, dei campioni. Ci è entrata anche “l’universalità dello spirito olimpico”: le ferree regole del gioco sono una metafora delle regole della vita sociale. Seguendo il pedagogista Pierre de Coubertin si va attribuendo allo sport una specifica e globale funzione educativa. Non si capisce poi come a un certo punto la cura del corpo, l’allenamento quotidiano, la prestazione fisica allontanino l’attenzione dalla finalità primaria e si assoggetti il corpo, docile asinello da soma, a una disciplina ferrea finalizzata ai risultati. Gli ex-atleti divengono spesso maschere di se stessi, con rughe profonde nel viso, vari acciacchi dovunque e portano generalmente i segni di un precoce invecchiamento.

Mete

Dietro mi pare di intravedere una “volontà di potenza” (Wille zur Macht), uno ansito goethiano (Streben) che come un lievito fa fermentare la mente e trasforma idee, significati e valori facendocene quasi ubriacare. Uno slogan che ci sentiamo ripetere quotidianamente è “volere è potere”, e di fronte ai fallimenti, consolatoriamente ci andiamo ripetendo “almeno hai tentato”. Esistono dei rischi quando si tenta il passo oltre i limiti: ma sembra che proprio in questo spostamento dell’asticella consista la vera dignità umana. Di nuovo, consolatoriamente, ci assolviamo dicendo che comunque n’è valsa la pena.

È innegabile che una tale mentalità tradisca un generale scontento di sé e della vita. Oppure che tale scontento sia indotto artificialmente, che diventi una moda lamentarsi. Diete, sport e cosmesi possono essere lo specchio che ci dice di quanto siamo scontenti del nostro corpo. La pornografia lo spettacolo con cui idealizziamo le nostre prestazioni, giudicando insufficiente, troppo poco per noi, la “normalità secondo natura”. Perché noi ci meritiamo di più, perché noi valiamo.

Limoni?

Questo modo di pensare collettivo ci tira il collo con il senso dell’onore, del dovere, della dignità, del rispetto di sé, del “debito” che si ha nei confronti della società di dare il meglio di noi per il progresso comune.

Chiaro che il “regresso” alla natura non sia visto di buon occhio:

primo: sembra giudicare negativamente il progresso, lo sforzo meritevole dell’umanità intera di affrancarsi dalle remore che ci impone la biologia; da ciò deriva un’ingratitudine verso quanti hanno speso tempo e denaro, profuso capacità e intuizioni per il progresso della scienza, della tecnica, del pensiero, dell’arte…

secondo: non sfruttiamo appieno le nostre capacità e ciò equivale a uno spreco a una perdita secca e netta

terzo: chi dirige il progresso si vede privato dei soggetti che lo portano avanti, che col contributo personale favoriscono il miglioramento sociale, la cultura e la civiltà.

Chi dirige il progresso non apprezza le critiche al proprio operato, presume di far giusto (proprio per il concorso e consenso di tante menti e persone, per lo sforzo collettivo ed unanime), è pronto a correggersi solo se scopre da sé errori di impostazione, debolezze di funzionamento; pronto a includere avanguardie e dissidenze, per timore di lasciare oppositori all’esterno della propria cittadella sicura. Ritenendo a priori di far giusto, di far del proprio meglio, non può accettare critiche esterne, né quinte colonne al proprio interno. Il modello teorico seguito è ritenuto logico e saldo, a prova di contraddizione: una macchina ben oliata e funzionale al perseguimento dello scopo per cui è stata concepita.

Altrimenti?

Un cordone sanitario di parole e di definizioni, di astrazioni e convenzioni, di simboli e significati attribuiti imprimono nel corpo, nella natura, il nostro marchio e col tempo lo plasmano e lo finalizzano all’obiettivo prefissato. E squalifichiamo le impostazioni che abbiamo per natura, che nonostante tutto ci fanno funzionare, star sani e vivere quel che siamo. A riprova, ricerchiamo naturalità, misura, normalità nei momenti di crisi. Deridiamo la nostra presunzione d’essere la misura di tutte le cose, la severa alterigia dell’“uomo vitruviano”. Denudiamo il corpo, prima che dei vestiti, degli abiti di pensiero con cui l’abbiamo paludato, agghindato a una funzione, a un significato, a una cerimonia, di una bardatura atta a tirar una carretta imposta dal viver sociale. Riscopriamo d’un tratto uno stato “di natura” e ci riconosciamo spontaneamente, ci sentiamo liberi: non ci importa elencare ciò da cui ci siamo liberati. Ci riproponiamo di non rifare l’errore di attribuire alla nudità significati, valori, concezioni e comportamenti perché ci reingabbieremmo in prigioni che sono ancora le nostre. È quel che fa ad esempio l’esibizione “frenata” del nudo nella pubblicità, quel che è così evidente negli ideali di bellezza di Miss Mondo.

In natura non c’è una foglia uguale ad un’altra, eppure le foglie del tiglio son diverse da quelle dell’edera, ogni leopardo ha le sue macchie, zebre e tigri le loro strisce… ogni persona ha una faccia diversa, unica, che differenzia un individuo da un altro: quel tanto diversi da esser distinti; quel tanto di uguali che ci fa pur prossimi e simili.

Il nudismo

Chiaro che il nudismo non sia visto di buon occhio. E non avendo argomenti razionali si prendono a prestito quelli morali, quelli del costume, della tradizione. È noto che il nudismo apre la via a una riconsiderazione di sé, del proprio corpo e del contesto socio-culturale in cui si vive. Disvela le trame del controllo sociale, i marchingegni della persuasione, le logiche del mantenimento del potere e della struttura sociale, e dello sfruttamento; l’uso della ricchezza a fini coercitivi e del denaro come mezzo di remunerazione e fidelizzazione dei singoli.

I nudisti son visti come cani sciolti, che anche solo per una minima ed innocua parte, non accettano le regole condivise di una “civile” e decente convivenza, vorrebbero sovvertirle. Minacciano di incrinare la stabilità sociale. Sono voci fuori dal coro, pecore fuori dal gregge. Ma ai nudisti non importa come vengono visti e concettualizzati dal resto della società. Considerano la propria scelta un fatto del tutto personale, una concezione legittima che discende dal consideraci esseri naturali prima che sociali, senza scopi di sovvertimento o rivoluzionari, senza il ricarico simbolico e ideologico con cui vengono inquadrati. Almeno nei momenti in cui possono stare nudi, non hanno altre mire o preoccupazioni che di godersi lo stato di natura. Ai gestori dei luna park questo non va giù! Ingrati nudisti!… dopo tutto quel che si fa, che è stato investito per il bene dell’umanità!

Quasi un’altra realtà

Il giorno in cui una persona si pone nudo a prendere il sole, scopre il vettore che lo trasporta in una realtà non codificata, non razionalizzata, non pensata, non traguardata dal teodolite cartesiano che la rassicura della sua consistenza, realtà e simbolicità. Un vettore nudo pur esso: il tepore del sole sulla pelle, la percezione di ogni refolo d’aria confermano di una presenza, di un 100% della nostra corporeità e reale fisicità. Non abbiam bisogno di pensieri per inquadrare la nostra presenza nel mondo. Siamo e basta. Semplicemente. Spontaneamente. Ridiventiamo animali, creature della natura, e questo è il compasso che ci delinea nella nostra rotondità e totalità, il regolo della nostra quadratura nel mondo, nella nostra sufficienza biologica, senza i vari altarini metafisici che ci siamo costruiti per dare un senso alla nostra esistenza. Esistiamo ad oltranza, ben al di là… o al di qua del cogito, ergo sum. Ed è questa riscoperta che ci dà agio nel nostro essere, nel nostro presente, nella nostra più sincera e semplice identità. Nella nostra indifferente nudità. Ed è una conquista, una conquista quasi inconsapevole, fatta col corpo, che a suo modo e a suo tempo arriva anche al pensiero, alla riconsiderazione della propria identità, così stridente ora, rispetto a quanto ci viene inculcato. Come ho sempre detto, non ce l’ho con nessuno. Ma che nessuno mi venga a impartire lezioni. La scelta che mi viene dalla natura è fuori da ogni laccio dell’umano pensiero, da ogni guinzaglio morale con cui mi si mena a passeggio, dalle briglie cui mi si vorrebbe aggiogare alla noria sociale.

Vivere nudi

Vivere nudi (Vivre nu, come direbbero gli amici francesi), con la luce del sole che mi colora la pelle, che mi profila la presenza reale e totale del corpo, che mi attira lo sguardo alla stranezza di certe parti non più coperte da “costumi” reali e metaforici, di natiche, inguini e pelvi non interrotte da tanga o bermuda, di corpi nudi, glorianti d’essere tali, essenziali, liberi e naturali, belli, insomma… senza il rinvio ossessivo e obbligato ad un sesso perverso, ossessivo, al postutto onanistico, a una casta astinenza, velo mortuario di un frutto appassito e grinzito.

Non m’importa se è chiedere troppo. Nego che esista qualcuno cui chiederlo, un potere costituito da cui esigerlo. È la mia natura, diritto innato con la persona. Non c’è una Roma padrona, né Stato che tenga.

#TappaUnica3V, duro allenamento sul morbido


Una tre giorni massacrante in questo, grazie alla festa dei patroni di Brescia (San Faustino e Giovita), lungo fine settimana. Due uscite, sabato e lunedì, in cui ho raggiunto quasi lo stremo delle forze, sia sul piano fisico che su quello mentale.

Sabato 13 febbraio

IMG_8457Le previsioni mi danno una mattina di bel tempo e ne approfitto subito per riportarmi un poco in quota e visionare uno dei pochi tratti che non conosco: dalle Passate Brutte alla Cocca di Lodrino, ovvero la seconda parte della seconda tappa. M’invento un anello che nessuna carta riporta come percorso ufficiale, ma carte fisiche e on-line mi certificano che, anche dove mancano sentieri segnalati, il passaggio esiste: partenza dalla Cocca di Lodrino, per strada asfaltata altalenante spostamento verso il poligono di tiro a volo di Valle Duppo; sempre per strada asfaltata discesa per la prima parte di questa valle; prendendo la parte alta dell’itinerario 2 (arancione) del Parco delle Fucine, per strada sterrata altro altalenante spostamento a Santa Caterina a cui segue la mulattiera che scende ad Alone e al guado del Pos de l’Acquà; abbandonato l’itinerario 2 e preso un ipotetico sentiero 483 (in realtà non ho visto nessuna segnalazione), per ripidissima strada che alterna tratti sterrati a tratti cementati salita alla cascina di Maccano; da qui per un panoramico sentiero di cresta, lunga e a tratti ripida salita alle Passate Brutte passando per Anghera e Cascina Sea (dove ci si innesta sul sentiero 3V); ancora strada sterrata che, con diversi saliscendi, taglia alta sopra Lumezzane e porta verso la IMG_8473Corna di Sonclino alla quale si arriva con un sentierino di cresta; ora si procede a lungo su uno stretto e a tratti complicato sentiero che, alternando ripide discese a tratti pianeggianti e altri di salita, porta alla Passata di Vallazzo passando per la Tesa Guizzi (o Sguizzi come riportato da alcune carte) e la Casa Crostelle; qui si prospettano due possibilità, scendere lungo la strada sterrata del Vallazzo che porta al poligono di tiro di Valle Duppo (variante bassa del 3V), oppure salire alla Cima Ortosei, percorrere la bella ed esposta cresta fino a Cima Reai e da qui scendere alla Cocca per la Costa Nibbia e Campo Castello (variante alta), il mio progetto è di seguire questa seconda strada. In totale, calcolato sulla mappa on-line (indi con un notevole errore, specie considerando i vari e lunghi tratti di notevole pendenza), sono 20 km con un dislivello secco di 703 metri (che al lato pratico risulteranno sensibilmente incrementati dai tanti sali e scendi), molto empiricamente calcolo di poter fare il giro in un tempo compreso tra le 5 e le 7 ore.

Purtroppo, ma anche piacevolmente, la neve ci mette lo zampino: la devo pestare fin da subito e mi seguirà fino al rientro. Neve farinosa, prima un paio di centimetri ma presto diventano una decina e man mano che salgo lo spessore cresce ancora, il massimo sulla cresta che porta al Sonclino dove un forte vento ha creato spessi accumuli. Neve leggera che comunque si fa sentire, neve che nei tratti più ripidi e duri scivola via dal fondo di cammino rendendo il passo assai faticoso. Non ho modo di verificare i tempi di marcia se non quando arrivo alla Cascina Sea, da qui in avanti ho dei precisi confronti e posso rilevare che, nonostante tutto, viaggio sempre molto sotto i tempi di tabella (dal 15 al 50 per cento in meno). Sulla vetta del Sonclino mi concedo una pausa per ammirare e fotografare il panorama a trecentosessanta gradi, poi via di corsa verso l’ancora lontana Cocca di Lodrino. Poco prima dello Stabile del Sonclino supero un giovane uomo che, seppur dotato di bastoncini, scende con molta circospezione: gli allenamenti fatti m’hanno ridonato l’agilità e la prontezza di quand’ero più giovane e sfrutto la neve per lasciarmi portare in più o meno lunghe scivolate che mi fanno risparmiare fatica e tempo.

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Dopo un lungo traverso in falsopiano una ripida discesa mi porta alla carinissima cascina della Tesa Guizzi, dove un grande ciao campeggia sotto il portico. Da qui il sentiero si fa più delicato, stretto e inclinato compie lunghi traversi su ripidi prati o passa tra spuntoni rocciosi talvolta celati dalla neve. Al roccolo di Casa Crostelle la segnaletica sembra svanire e ci metto qualche minuto a ritrovarla, poi via con nuovo slancio, poco dopo, però, una ripida risalita m’inchioda le gambe, iniziano a far male e si rifiutano di spingere, stringendo i denti e rallentando sensibilmente il passo la supero e supero anche le successive risalite, ogni tanto un piede scivola sul fondo innevato e a malapena riesco a tenermi in piedi, ogni volta è un martoriante colpo alle gambe (e al fiato) che richiede almeno 5 minuti di passo più lento per essere completamente assorbito. Inizio a pensare di scendere per la variante bassa: sulla variante alta ci sono tratti di discesa assai ripida e pericolosa, con le gambe in questo stato rischierei di trovarmi sul fondo di uno dei due valloni che contornano la cresta, 200 o più metri di sotto. E così faccio, con molto disappunto e con un paio di ripensamenti, alla fine mi dirigo per questa via. Camminando mi mangio una barretta e bevo un goccio d’acqua, poi mi metto di corsa e, nonostante i dolori che si diffondono orami ovunque nelle gambe, in venti minuti supero quattrocento cinquanta metri di dislivello e arrivo al poligono di tiro di Valle Duppo.

Il fondo duro e regolare della strada asfaltata allevia un poco fatica e dolori, le diverse risalite le affronto di slancio e in altri venti minuti sono alla macchina: dalla Passata del Vallazzo sono sceso in quaranta minuti contro l’ora e venti della tabella. In totale il giro l’ho fatto in cinque ore esatte, quattro e trentuno sommando i tempi cronometrati nelle varie tratte, ovvero una velocità media di sei chilometri e seicento quaranta due metri l’ora (al lato pratico oso affermare che i chilometri sono almeno trenta)… Ottimo!

Lunedì 15 febbraio

È passato un solo giorno dall’estenuante uscita precedente, le gambe ancora sono doloranti e la ferita sui talloni è ancora viva (sabato la neve aggrumandosi e gelandosi al vertice delle stringhe me le slacciava, la prima volta me ne sono accordo in forte ritardo facendo sì che nell’incavo tra tallone e gamba si formassero e rompessero due piccole vesciche, una per piede), voglio però provarmi proprio in tale condizione ed allora, con la complicità di una mattinata di sole, mi sono sparato sul sentiero 502 di Gavardo. Oggi conoscendolo quasi per intero, solo la parte finale devo trovarla perché l’altra volta l’avevo completamente sbagliata, nonostante il tanto fango trovato riesco a farlo esattamente nella metà del tempo di tabella: 1 ora e 36 minuti invece di 3 ore e 15 minuti.

Le gambe hanno dato qualche segno di stanchezza dopo sette minuti e dopo quindici ho dovuto rallentare un attimo, recuperando velocemente ed arrivando al punto di massima quota nel tempo di quarantanove minuti e trenta secondi. Il calcolo del dislivello orario è però da farsi prendendo come riferimento un punto più in basso: i primi quattrocento trentanove metri di secco dislivello li ho fatti in trentasette minuti, viaggiando quindi a settecento undici metri ora, da lì alla quota massima è una lunga strada con pochissimo dislivello e la media si abbassa a 593 metri ora.

Arrivato alla quota massima mi sono immediatamente messo di corsa, una corsa veloce e spinta anche sui tratti di piano o di lieve salita. Alla fine, data la lunghezza del percorso (che in questo caso è precisa avendola trovata sul cartellone posto nei pressi del punto di partenza) di undici chilometri e cinquecento sessantacinque metri, ho viaggiato ad una velocità media di sette chilometri e duecento ventotto metri all’ora.

Che dire, sono contento per come ho reagito alla faticaccia di sabato.

Un allenamento reso ben duro dal morbido del candido manto nevoso di sabato e dello scuro spesso strato di fango di oggi.

Educazione sessuale


Condizionati, ossessionati, spaventati educhiamo i figli a nostra immagine e somiglianza, dando luogo ad un circolo vizioso che mantiene la società chiusa in una malattia della quale alcuni dei sintomi più evidenti sono le bambole (e i bambolotti) privi di attributi sessuali, i camerini singoli negli spogliatoi, spogliatoi e bagni separati tra uomini e donne, il concetto stesso di decenza, la nudofobia, la repulsione per l’educazione sessuale.

Ecco, l’educazione sessuale, da tempo se ne parla, alcune scuole ci hanno provato e per la maggior parte le iniziative avviate sono state prontamente bloccate dall’intervento dei genitori, evidentemente più preoccupati di conservare la loro presunta stabilità mentale (vedi “Bambini! Cosa o chi vogliamo veramente proteggere?”) piuttosto che di dare la possibilità ai figli di crescere in modo sano e naturale. Quelle poche iniziative che sono riuscite a sopravvivere all’opposizione si mascherano dietro termini quali l’affettività, si strutturano sulle storielle di api e fiori, si manifestano attraverso immagini e cartoni animati dove gli attributi sessuali sono celati o addirittura mutilati.

Invece di starsene bloccati sul chiedersi a che età si sia pronti, sul come farlo, su quale metodologia utilizzare, eccetera, passiamo all’azione e facciamolo presto: i bambini non ancora condizionati dalle tare nudo e sesso fobiche degli adulti di certo reagiranno solo che bene, quello che comprendono di sicuro li fa crescere, quello che non comprendono di sicuro non li turba; quelli più grandi ormai già condizionati dalla società malata di nudo e sesso fobia riusciranno così a liberarsene e crescere più sani e migliori.

C’è bisogno di crescita, di maturazione, di sviluppare una società sana, d’interrompere il circolo vizioso basato sull’ossessione e la fobia, di fare educazione sessuale e farla come va fatta: usando il nostro vero corpo, così come mostrano gli stupendi filmati di Pubert, realizzati dalla NRK, emittente televisiva nazionale norvegese, nell’ambito del programma Newton.

Ringrazio l’amico Alessandro Ruggero per avermi segnalato l’esistenza di tali filmati.

Monica Lewinsky: il prezzo della vergogna


Difficile aggiungere qualcosa, c’è già tutto, è lunghetto ma vale la pena di leggerlo, veramente. Grande Monica!

Al di là del Buco

https://vimeo.com/125736016

E’ un intervento molto bello di Monica Lewinsky, con diffusione e traduzione sulla piattaforma Ted.com. Vi invito a seguirlo e leggerlo perché dice tanto sul perché le donne – come le persone gay, lesbiche e trans – siano facilmente vittime di cyberbullismo e di come il cyberbullismo sia responsabile di quel che una persona che ne è vittima può fare, non ultimo tentare il suicidio. Serve che chiunque, sul web, sia responsabile di quel che dice, perché le persone che sono vittime delle vostre lapidazioni online sono, per l’appunto, persone. Buona lettura!

>>>^^^<<<

Avete di fronte una donna rimasta pubblicamente in silenzio per dieci anni. Ovviamente, è tutto cambiato, ma solo di recente.
Diversi mesi fa ho tenuto il mio primo grande discorso in pubblico al summit Forbes 30 under 30: 1500 persone brillanti, tutte sotto i 30 anni. Significa che nel 1998, il più grande tra loro…

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#TappaUnica3V, incremento di forza


Ci sono cose che, nella vita, hanno necessariamente la priorità ed è così che in questo ultimo periodo i miei allenamenti hanno subito un sensibile rallentamento, in questi giorni, poi, sono necessariamente limitato al mattino con rientro a casa per il mezzogiorno. Ho quindi deciso di spostare l’attenzione dalla resistenza alla forza, quella delle gambe ovviamente: uscite brevi con zaino leggero o addirittura senza zaino ma fatte a ritmo sostenutissimo e su percorsi con tratti particolarmente ripidi.

Nel contempo, in un fine settimana in cui avevo solo un paio di ore libere, ho fatto una prova importantissima: il test di lentezza eheheh

Andiamo con ordine.

Sabato 31 gennaio

Proprio a fianco di casa ho una strada perfettamente rettilinea per alcuni chilometri, perfetta per rilevare attraverso le mappe on-line la distanza dei due chilometri, ovvero quella lunghezza di percorso che, fatta avanti e indietro, corrisponde a quei quattro chilometri che durante il mio viaggio finale dovrò fare per ogni ora di cammino. L’obiettivo è quello di trovare e memorizzare il corrispondente ritmo del passo, un ritmo sensibilmente più basso del mio solito.

Che dire, non ce l’ho fatta, la prova è fallita: non sono riuscito ad andare così piano e i quattro chilometri li ho coperti in quaranta minuti, con una velocità risultante di sei chilometri all’ora.

Sabato 6 febbraio

IMG_8418Sentiero 502 che dalla località San Carlo in Gavardo sale a Tesio per poi ridiscendere compiendo un ampio giro, in totale la tabella del CAI indica nove chilometri e quattrocento metri (il cartellone all’inizio del sentiero invece riporta undici chilometri e cinquecento sessantacinque metri), con tre ore e quindici di percorrenza.

Parto subito fortissimo e, con la sola pausa dei diversi dubbi di percorso (la segnaletica risulta carente quasi ad ogni bivio), mantengo il ritmo fino al punto di massima quota: quattrocento ottantacinque metri di dislivello in cinquanta minuti, se tolgo il tempo perso per trovare la giusta strada (almeno una quindicina di minuti) devo proprio essere contento.

La discesa parte ripida per poi spianare con un lungo diagonale interrotto da qualche breve strappo in salita. Ancora ripida discesa, ripidissima salita su strada cementata, ancora un lungo diagonale e recupero il percorso di salita per il quale in breve sono nuovamente alla macchina: in totale ci ho messo due ore, ma almeno trenta minuti se ne sono andati per le varie indecisioni di percorso.

E i quadricipiti? Beh, sono rimasti completamente silenti, dovrei esserne contento ma visto quello che era lo scopo dell’uscita, farli scoppiare, posso solo dire… “obiettivo fallito!”

Domenica 7 febbraio

IMG_1578Sotto la pioggia battente mi faccio il giro della Rocca di Bernacco a Vallio Terme.

Partenza al buio senza torcia, ma la strada asfaltata, nonostante la ripida salita, permette comunque un passo agevole e veloce. Finisce l’asfalto e inizia il cemento, ancor più ripido. Poi sterrato e alle Case di Bernacco piano sentiero che si addentra in una valletta. Evidenti in un tratto franoso i segni del frequente passaggio di ciclisti, in alcuni punti il sentiero viene quasi a mancare.

Salita su un verde e ripidissimo costone erboso, la traccia più volte rovinata dal passaggio delle biciclette rende il cammino ancor più disagevole e faticoso, comunque mantengo un ritmo elevato: cento ottanta battiti al minuto, più o meno visto che non avendo cardio frequenzimetro li rilevo manualmente sulla carotide.

Dopo un breve tratto di piano respiro eccomi alla base della cuspide sommitale, nella prima metà il sentiero l’addolcisce con alcuni tornanti, peccato che la traccia sia profondamente scavata dal passaggio dei ciclisti: cavolo, hanno certo anche loro diritto a divertissi, d’altra parte devono pur rendersi conto che non possono distruggere tutti i percorsi escursionistici, percorsi il cui tracciamento è costato sudore e soldi, che si trovi una mediazione!

Trentatré minuti e sono in vetta, trecento sessantatré metri sopra il punto di partenza, ottimo.

Senza sosta di corsa mi lancio sulla ripidissima discesa dal versante opposto a quello di salita e qui ne combino una grossa: la corsa, le gocce di pioggia sugli occhiali e alcune evidenti tracce nell’erba mi fanno sbagliare percorso, non m’avvedo della secca deviazione a destra e procedo dritto. Quando mi trovo ai piedi di un piccolo ma secco rilievo inizio a sospettare l’errore: questo giro l’ho già fatto diverse volte e non ricordo questa risalita. Un paletto segnaletico sulla sommità del dosso! Boh, andiamo avanti.

Giù di corsa per un pendio erboso che supera i quarantacinque gradi d’inclinazione, l’erba alta rende difficile mantenersi in piedi. Poco dopo mi trovo nel bosco, un bosco fitto che non dovrebbe esserci, sono certo passati alcuni anni dal mio ultimo passaggio, ma comunque troppo pochi per la crescita di una siffatta boscaglia. Ormai non posso far altro che scendere, un capanno, anche se diroccato, mi fa presupporre d’essere vicino a un sentiero e infatti, dopo una fascia di spine, eccomi su una larga stradina sterrata che seguo nella direzione della presunta posizione di Vallio.

Bivio, io arrivo da destra quindi devo andare a destra. Una presa d’acqua e nei suoi pressi un sentiero s’infila a destra in una stretta valletta, senza esitazione lo imbocco, diventa quasi un torrente, poi si alza sul pendio, segni di biciclette, legna raccolta, capanno e… strada asfaltata, la strada del Monte Ere, una strada che ben conosco. Dietro di me un cartello segnaletico indica la Rocca di Bernacco, è il sentiero da cui dovevo arrivare. Bon errore rimediato, mi è costato un chilometro in più e dislivello aggiuntivo ma poco importa: ho messo a dura prova il mio senso d’orientamento e ancora una volta ho saputo trovare la giusta strada, senza contare che la strada in più è stata un allenamento.

Poco sotto lascio la strada asfaltata per lo sterrato che deve riportarmi al punto di partenza, giunto ad un grande dosso pieno di roccoli mi trovo davanti tre direzioni e nessuna segnalazione (in effetti da qui non passa nessun sentiero ufficiale, questo puntava a valle molto prima ma portando a distanza dalla macchina). Prendo la strada centrale che scende cementata, però, credendo d’essere molto più in alto, i conti non mi tornano: non vedo le cascine che dovrei vedere sotto di me, davanti ho una larga valle che dovrebbe invece essere molto stretta. Decido di ritornare sui miei passi, risalgo un bel pezzo per poter avere una migliore visione della zona. Inutile, non riesco a vedere quello che dovrei vedere però… però vedo la strada che da Vallio sale al Monte Ere, è certo sono nella valletta più a est per cui io devo andare a ovest per la strada già percorsa e poi risalita. Detto fatto e in pochi minuti arrivo ad una casa inequivocabilmente riconoscibile e alla strada asfaltata che mi riporta alla macchina.

In totale almeno sette chilometri e mezzo di strada per cinquecento trenta metri di dislivello, il tutto costantemente sotto una pioggia non battente ma abbondante e continua (ottimo test per la nuovissima giacca da pioggia), il tutto fatto in un’ora e quarantatré minuti. Anche oggi nessun dolore alle gambe, le brevi soste fatte sono state tutte necessarie per prendere fiato, beh, se non ho allenato la forza dei quadricipiti ho di sicuro allenato la forza organica.

Martedì 9 febbraio

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Ancora un percorso che non conosco (il 503 di Gavardo) e ancora problemi con la segnaletica, oggi decisamente sfuggevole: salvo pochissime eccezioni scompariva nell’avvicinarsi ai bivi e la si ritrovava solo dopo diverse centinaia di metri, in un caso ho fatto all’incirca un chilometro andando totalmente a naso. Peccato perché questo è un bel giro: quasi quattrodici chilometri con circa settecento metri di dislivello suddivisi in due tratte (519 e 182 metri) tra loro separate da una lunga e ripida discesa che riporta quasi alla quota di partenza; si attraversano località interessanti, in particolare mi hanno colpito un capanno contornato da un bellissimo castagneto e una cascina con oche starnazzanti (una mi correva dietro a collo allungato e becco puntato, fortuna c’era una rete a dividerci) e diverse caprette.

Il sentiero parte subito ripidissimo e dal fondo molto irregolare, molti i saltini di roccia che formano alti gradini, la pioggia dei giorni scorsi ha reso particolarmente scivoloso il terreno. Intenzionato a far saltare i quadricipiti ci do dentro a tutte e, infatti, dopo una ventina di minuti compaiono i primi dolori: vaiiiii!

Cento ottanta battiti a minuto, ovvero venti in più di quelli che, secondo la formula “duecento venti meno età), sarebbero il mio limite massimo, mi accompagnano costantemente per tutta la prima salita e in circa quaranta cinque minuti (tolti i dieci che mi sono costati per un ripidissimo e faticoso errore di percorso) sono al vertice. Qui incontro una cordiale persona con cui mi soffermo a chiacchierare per una decina di minuti, resta impressionato dal mio progetto TappaUnica3V e ancor più dalla mia età.

Con una corsa senza sosta (salvo un punto dove la segnaletica era poco visibile e stavo sbagliando strada) in venti minuti supero i quattrocento venti metri di dislivello della prima a tratti molto difficile discesa (sassi mobili nascosti da uno spesso strato di foglie, forti pendenze, fango, radici, salti rocciosi, umidità, non mi sono fatto mancare nulla).

Breve tratto di asfalto lungo la strada della valle di Vallio, lungo sentierino pianeggiante fortemente infangato e quindi, dopo il secondo importante errore di percorso, risalita, stradina asfaltata con pendenze notevoli, piano diagonale tra bellissimi prati, ancora un poco di salita e poi di nuovo in piano per una stradina sterrata che riporta sul sentiero di salita per il quale rientro alla macchina. Ancora di corsa sull’ultima tremenda (per l’irregolarità del fondo e la pericolosità delle tante viscide pietre) discesa.

In totale, compresi i vari pezzi in più fatti per errore e i tempi persi alla ricerca della segnaletica, due ore e quarantacinque contro le quattro indicate dalla tabella. Ah, i quadricipiti? Niente, superati i primi dolori sono tornati a dormire, ho fatto di tutto per portarli allo stremo ma niente, anche oggi non ci sono riuscito.

Consuntivo

Riaggiorniamo la tabella dei totali:

  • uscite effettuate: 26
  • chilometri percorsi (calcolo approssimato per difetto): 366
  • metri di dislivello superati (calcolo approssimato per difetto): 21320
  • ore di cammino fatte: 100 e 26 minuti (93,55 effettive, 6,31 di soste)
  • massimo chilometraggio fatto in unica uscita: 45
  • massimo dislivello superato in unica uscita: 2212 metri
  • tempo massimo di cammino in unica uscita: 8 ore e 25 minuti

Opinioni, verità, orizzonti


Cogito ergo dubitoLa matematica si definisce una scienza perfetta e una delle più tipiche affermazioni è quella di “due più due fa quattro”. Vero, verissimo: se ho due mele e ne compro altre due mi trovo con quattro mele.

Allargando la visione possiamo però notare le tante altre variabili: se una delle due vecchie mele è nel frattempo marcita io ne mangio solo tre; se non le mangio subito e le faccio marcire ne mangio nessuna; eccetera.

Quello che appariva come verità assoluta è, al contrario, solo una delle possibili verità: due più due fa da zero a quattro.

Allarghiamo ulteriormente l’orizzonte e spostiamoci sul campo della fisica.

C’è un grosso masso, ad esso ho applicato due funi, al capo di ogni fune due motori in grado di produrre ciascuno una forza pari a due chilogrammi, qual è la forza applicata sul masso? Beh, dipende: se le due funi sono perfettamente parallele e tirano ambedue verso l’alto il masso si solleva per effetto di una forza di quattro chili (+4), ma se le due corde sono in opposizione fra di loro il masso resta fermo (0) e se, poi, le due corde tirano verso il basso il masso si abbassa e, per convenzione, si dice di averlo sottoposto a una forza negativa di quattro chili (-4); se le due forze non sono parallele la forza totale può assumere, tra i due limiti definiti (-4 e +4), infiniti valori. Conclusione. Due più due fa da quattro a meno quattro.

Perché tutto questo discorso? Perché se perfino la matematica, universalmente ritenuta scienza perfetta, ha invero dei limiti ed esprime solo una delle possibili verità, figuriamoci cosa possano essere e cosa possano esprimere tutte le altre cose del mondo, tutto ciò che è opinione, qualsiasi morale.

Se ne deduce ineluttabilmente che nessuno può accamparsi il diritto d’essere il portavoce della verità assoluta (sostanzialmente inesistente), può al massimo affermare d’esprimere sempre e solo una delle più o meno numerose (sostanzialmente spesso infinite) possibili verità e mai potrà pretendere che gli altri ad essa si uniformino.

Purtroppo il mondo non è perfetto ed anche se basterebbe un minimo di logica e di umiltà invero molte, troppe, sono le persone che si fanno portatrici della verità assoluta e ne pretendono il riconoscimento universale, ovvero che tutti ad essa si uniformino. Alcuni esempi? I partecipanti al Family Day, gli oppositori alle adozioni da parte di coppie omosessuali, gli estremisti politici e religiosi, certi vertici del naturismo “ufficiale”, quelle persone che vorrebbero incatenare il nudo alla spiaggia preferibilmente ben oscurata o quantomeno opportunamente delimitata.

Tutti costoro hanno le loro ragioni e sono portatori di verità, d’altronde per le stesse identiche motivazioni anche gli altri, coloro che la pensano diversamente, hanno le loro ragioni e sono portatori di verità, la loro verità.

Ciò che a me dà fastidio (una condizione assolutamente fortemente soggettiva) risulta ad altri consono ed è giusto che questi altri ne possano usufruire senza limitazioni e senza vincoli.

Ognuno sia libero di vivere secondo la sua coscienza e la sua visione delle cose: due più due uguale da meno quattro a più quattro!

QuindiciDiciotto, ecco la prima scheda


Per cause di forza maggiore sto procedendo più a rilento degli anni passati, ma procedo, le località e le date sono definite, ho predisposto una nuova scheda di registrazione agli eventi unica per tutti su pagina a parte e ho realizzato la specifica locandina, ora sto lavorando alle schede descrittive delle varie uscite. Pubblicata poche ore addietro la prima, relativa a una interessantissima uscita a carattere culturale: visita al museo della Guerra Bianca di Temù.

Vi aspetto, vi aspettiamo numerosi!

Locandina QuindiciDiciotto 2016 600

Maglia tecnica invernale TECSO PRN1006


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Affiancandosi strettamente all’altra recensione fatta (T1006) e offrendo l’opportunità di ampliare il campo di scelta a chi avesse bisogno di una maglia tecnica da usare durante le proprie escursioni invernali, pubblico subito anche questa scheda.

Altra maglia Tecso di ottima qualità e dalle caratteristiche tecniche eccezionali, purtroppo con un probabile errore di stampigliatura della taglia che, pur senza inficiare del tutto la prova, ne condiziona notevolmente l’utilizzo e una parte delle valutazioni. Ma andiamo con ordine.

Dopo l’acquisto dell’altro modello, quello già recensito, visto che, nonostante la soddisfazione delle prove fatte, presentava qualche leggera controindicazione all’uso che ne devo fare (escursionismo a ritmo sostenuto e/o su percorsi estremamente lunghi), attraverso Internet mi sono informato sugli altri prodotti della Tecso e ho appreso che la loro produzione prevede anche capi d’abbigliamento più specifici per la corsa, presumibilmente più adatti alle mie esigenze. Casualmente scopro che una delle mie sorelle conosce l’azienda e il suo titolare, combiniamo allora una visita pressoché immediata. L’intenzione è innanzitutto quella di acquistare una maglia tecnica invernale per i mei allenamenti di TappaUnica3V, poi visionare dal vero anche gli altri prodotti, infine, perché no, sondare la possibilità di ottenere un piccolo supporto al mio viaggio, magari la giacca antivento che da tempo cerco senza trovarne una che abbia tutte le caratteristiche che voglio.

Mia sorella, convinta che a me interessi più che altro la sponsorizzazione, parte col discorso di TappaUnica3V e mi vengono fatte vedere tre bellissime maglie estive. Mi soffermo a lungo ad osservarle, sono tutte bellissime, in particolare quella più leggera, però… però intanto l’estate è lontana, poi nelle escursioni estive preferisco stare nudo e per quei momenti in cui devo necessariamente vestirmi sono già sufficientemente e modernamente equipaggiato, quello che mi manca è l’inverno. Sposto quindi l’attenzione sulle maglie invernali.

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Aerazione della schiena

Ne escono due, una più leggera, l’altra più vicina al peso delle maglie già comprate al mercatino ma con una composizione dei tessuti decisamente diversa e più adatta al cammino sostenuto. Alla fine mi compro quest’ultima, purtroppo senza la possibilità di provarla sul posto e, arrivato a casa, risulta troppo piccola: nell’uscita del giorno successivo non posso provarla, peccato.

Cambiata la maglia pochi giorni dopo ne faccio il primo test su un percorso lungo. La temperatura è costantemente prossima allo zero, in certi momenti anche sotto, e in alcuni tratti del percorso c’è anche un forte e freddissimo vento: niente di meglio per testare un capo invernale.

Subito si dimostra decisamente un buon acquisto: da fermo la maglia non apporta calore ma appena ci si mette in movimento diviene bella calda tanto che per tutto il giorno non ho bisogno di aggiungervi altro né sotto né sopra; la protezione dall’aria ancora non è ottimale ma è decisamente migliore rispetto alla T1006. Estremamente elastica aderisce molto al corpo pur lasciando ampia libertà di movimento; il collo è un po’ troppo alto e sulle prime mi dà un poco di fastidio, comunque svanisce nel giro di poco tempo; anche dopo molte d’utilizzo ore non ho sensazioni di prurito ed è totale l’assenza di irritazioni.

La cosa più interessante e che più la differenzia dalla T1006 è che questa maglia si bagna pochissimo e solo dopo molte ore di cammino: inevitabilmente, specie per un corpo che è abituato  a stare nudo, incrementa anche lei la naturale sudorazione, ma proprio di poco e il sudore passa subito all’esterno da dove evapora velocemente e completamente anche nella parte di schiena a contatto con lo zaino.

Negli allenamenti successivi uso sempre questa maglia e le prime osservazioni si confermano, anche se, proprio nell’allenamento in stile corsaiolo di oggi 6 febbraio, sulla schiena sia la maglia che la pelle si sono decisamente bagnate: certo è da considerarsi che l’uso di uno zaino limita considerevolmente le caratteristiche di traspirazione della maglia, inoltre il fatto che il mio zaino abbia un appoggio a cuscinetto quasi pieno incide ulteriormente (ma l’appoggio con rete rende lo zaino poco stabile nella corsa, inoltre risulta fastidioso sulla pelle nuda: tutta l’attrezzatura che prendo deve necessariamente risultare adeguata all’utilizzo in nudità, aspetto che le case produttrici dovrebbero iniziare a prendere in considerazione vista la costante crescita di coloro che scelgono di vivere in nudità e, pertanto, nudi praticano anche gli sport), d’altra parte questo è l’utilizzo che devo farne e queste sono le mie esigenze, esigenze magari al limite ma che ritengo siano pur sempre abbastanza vicine a quelle di ogni escursionista allenato.

Arriviamo ai difetti, che, come già anticipato, a parte il primo, a mia opinione sono da attribuirsi ad un errore di stampigliatura della taglia (non oso pensare che si possa volutamente produrre una maglia siffatta):

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  • i polsini sono troppo larghi e lasciano scivolare la manica verso l’alto;
  • a cerniera completamente abbassata il colletto risulta fastidiosamente tirato all’indietro;
  • le maniche sono troppo corte e non arrivano ai polsi (anche i ricami dei gomiti sono spostati verso l’alto);
  • ma la cosa peggiore è che ad essere corto è anche il corpetto, troppo corto, arriva poco sotto l’ombelico; data la sua notevole elasticità, tirandolo si riesce a farlo entrare nei pantaloni ma camminando se ne esce nel giro di pochi minuti lasciando scoperte proprio le due parti del corpo più sensibili al freddo, reni e pancia; inaccettabile per una maglia invernale ed anche incomprensibile visto che l’altra maglia era perfetta; confrontandola, come dalle foto a fianco e sotto, con l’altra Tecso ben si nota la differenza; anche la larghezza è sensibilmente inferiore, avevo attribuito questo alla diversa destinazione d’uso delle due maglie, poi l’ho confrontata con altra maglia da corsa (di marca diversa e, per giunta, estiva) e il risultato non cambia, molto più corta e sensibilmente più stretta.
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L’evidente differenza di lunghezza con la T1006

Ultimo appunto, seppure indossandola non mi sono impigliato in niente, rivoltandola si notano anche in questa diversi fili sporgenti che formano asole libere, molti di più che nella T1006 e distribuiti su un maggior numero di zone, il timore è che alla lunga si possano strappare e provocare un cedimento strutturale della maglia.

Tecso Articolo PRN1006: maglia a manica lunga con collo a lupetto dotato di cerniera; 92% polipropilene Dryarn, 8% elastan.

Voto (ignorando il probabile errore di stampigliatura della taglia e rapportandolo ad una maglia dimensionata correttamente):

  • estetica 9
  • cura dei dettagli 9
  • finiture 10 quelle esterne, 5 quelle interne
  • vestibilità 10
  • comfort 10
  • calore 8 a freddo, 10 dopo essersi messi in movimento
  • protezione dall’aria 9
  • complessivo… 9 e mezzo (così come è, corta e stretta, la valuterei comunque con un 6)

Maglia tecnica invernale TECSO T1006


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Trovata da mia moglie sulla bancarella di un mercatino di paese, appena mi viene consegnata resto colpito dalla gradevolissima estetica anche se rimbrotto per non essere il capo d’abbigliamento tecnico che stavo cercando (maglia tecnica da corsa mentre questa è una maglia sotto tuta da sci). Ormai c’è e tanto vale provarla, nell’infilarla, però, due dita di una mano restano incastrate in alcuni fili sporgenti, rivoltata la manica individuo qualche altro sfilacciamento, cosa che mi indispone ulteriormente (questo per dire che quanto segue è sincero e non dovuto a smancerie).

IMG_8407La maglia calza bene, ben elastica aderisce ovunque senza stringere, il corpetto è lungo a sufficienza da coprire i reni, le maniche arrivano fino ai polsi senza andare fastidiosamente oltre, il colletto ben alto garantisce un’adeguata protezione del collo dall’aria, la cerniera scorre bene e il relativo tiretto è della giusta misura dando una presa ottimale senza, nel contempo, creare fastidio. Ottima, infine, la libertà di movimento, gradevole il contatto con la pelle e immediata la sensazione di calore, aspetti importanti visto l’uso che intendo farne.

Qualche giorno dopo posso provarla direttamente sul terreno pratico e, pur evidenziandosi non essere il suo specifico campo d’azione, ne resto veramente soddisfatto. Dopo il lavaggio l’asciugatura è velocissima, ciliegina sulla torta che mi fa decidere per l’acquisto di una seconda maglia dello stesso articolo (stavolta mi arriva una taglia in più che risulta altrettanto adeguata e confortevole, all’interno si notano ancora gli stessi sfilacciamenti).

IMG_8406Dopo varie uscite, effettuate tra novembre e gennaio, a quote comprese tra i 400 e i 2000 metri, camminando a passo sostenuto e per diverse ore, con un impegno fisico non indifferente, premettendo che faccio riferimento sempre e solo all’utilizzo come capo esterno calzato direttamente sulla nuda pelle, posso affermare che:

  • il capo dona di suo calore al corpo;
  • sotto sforzo fa magari sudare un po’ troppo;
  • il sudore viene immediatamente trasferito sul lato esterno della maglia;
  • la pelle resta perfettamente asciutta;
  • l’evaporazione del sudore è abbastanza veloce, solo la parte di schiena a contatto con lo zaino non riesce ad asciugarsi (da notare che il dorso dello zaino si presenta asciutto);
  • anche a maglia esternamente bagnata la protezione termica è pressoché inalterata;
  • si sente un po’ troppo l’effetto del vento e dell’ombra,
  • totale assenza di irritazioni o più o meno fastidiosi pruriti.

Insomma, un capo ottimo e, seppur con le piccole limitazioni riportate, adatto anche all’utilizzo come maglia per escursionismo, perfetta con temperature tra i 5 e i 10 gradi centigradi, comunque buona, in assenza di vento, anche sotto i 5. Aggiungendovi o una maglia tecnica leggera, da calzare sotto, o una giacca tecnica antivento, da calzare sopra, anche a temperature più rigide (credo d’essere arrivato sino a -10) ci si sente benissimo, anche da fermi.

Tecso Articolo T1006: maglia a manica lunga con collo a lupetto dotato di cerniera; 70% polyamide Skinlife, 25% polipropilene Dryarn, 5% elastan. Prodotto fuori produzione sostituito dal modello TN1006 che ha le stessa composizione dei tessuti ma, dalle immagini sul sito, appare un poco più ricercata nei dettagli tecnici della parte alta del torace e della schiena.

Voto:

  • estetica 9
  • cura dei dettagli 9
  • finiture 10 quelle esterne, 7 quelle interne
  • vestibilità 10
  • comfort 10
  • calore 10 in assenza di vento, 8 in presenza di vento
  • protezione dall’aria 7
  • complessivo 9