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Eccezionale lavoro, immagini stupente, questa è la natura e la natura è sempre splendida e perfetta!
Partita è la primavera
i pascoli inonda di bucaneve
tra questi le talpe fanno capolino.
Presuntuoso l’elleboro
s’erge sopra i piccoli bucaneve.
Forme contorte,
di verde lanugine ricoperte,
sporgono sull’esile sentiero.
Un piccolo magico gufo dormiglione
silente m’osserva.
Emanuele Cinelli, 20 marzo 2023
In periodo di pandemia sono state scritte tante cose ma, in un contesto di imperante mentalità protezionistica, pochi si sono ricordati di prendere in considerazione le dure regole della Natura.
Da tempo si è capito che certe strane morie tra pesci e altri animali sono motivate semplicemente dal sopra popolamento di una determinata area. La natura è capace di mettere in atto dei meccanismi di autodifesa e, nel farlo, non si pone limiti etici: l’etica è una invenzione dell’uomo. Alla Natura non interessa la media mondiale della popolazione, non interessa se far morire sia cosa buona o cattiva, non interessa l’età o la condizione, non interessano tutte le “manfrine” tipiche dell’ essere umano. La Natura guarda al singolo nucleo di popolazione, al piccolo territorio e se in questo i numeri eccedono quelli massimi per una buona sopravvivenza ecco che scattano le epidemie dove, ovviamente, altro importante meccanismo di autodifesa, a cadere sono i più deboli.
Non voglio affermare che questa sia la motivazione della pandemia che ci ha colpito in questi ultimi anni, non ho le competenze per farlo, voglio solo richiamate l’attenzione su un aspetto troppo spesso trascurato: la Natura e le sue “regole” (tra virgolette perché la Natura non ha regole ma solo opportunistici meccanismi spontanei di autodifesa).
Primavera s’avanza
Emanuele Cinelli, 3 aprile 2019
mille colorate corolle s’aprono al sole
cuori profumati si espongono al mondo
ascoltar si deve il natural richiamo
corpi gaudenti
ignudi si fanno!
Desiderio di scivolare nelle tue acque,
di lasciarti ricoprire il mio corpo nudo,
di sentirti giocare con la mia pelle,
di farmi trasportare dalla tua forza e
lasciarmi scivolare leggero tra le tue spumeggianti parole.
Emanuele Cinelli – 9 luglio 2018
(ispirato da un post su Twitter che riportava una poesia di Antonia Pozzi dall’analogo tema)
Anche la quinta uscita di VivAlpe 2017 è andata, il gruppo è tornato a rinsaldare le proprie file anche se molti, sfruttando i vari ponti consecutivi, erano volati in lidi oceanici dove il nudo è assai più semplice e apprezzato anche a livello urbano. Noi pochi rimasti, con la piacevole graditissima aggiunta di un nuovo amico, ci siamo ritrovati per questa ennesima escursione con la quale diffondere, nel limite del fattibile, il verbo della natura.
Alle otto e mezza siamo in cammino da quel di Gardone Val Trompia, l’aria è pungente ma poco sopra il sole già illumina il bosco dandoci, insieme alle favorevoli previsioni, speranza di una salita presto resa confortevole. Così infatti avviene e dopo una mezz’ora qualcuno si leva il qui inutile fardello degli abiti. Il sole, però, è oggi in vena di scherzi e dopo un’altra mezz’ora va a celarsi dietro una coltre di nuvole sempre più spessa e predominante, la temperatura crolla e le vesti tornano a fare il loro vero (e pressoché unico) servizio: proteggere dal freddo (anche se, invero, uno di noi, più intrepido degli altri, indossa solo la maglia pesante).
Essendo pochi. pur osservando le varie essenze floreali che contornano il sentiero (tra le quali delle bellissime orchidee ed estese macchie di fragoline selvatiche), pur fermandoci a raccogliere delle erbe commestibili (i Verzulì), saliamo abbastanza veloci e, dopo aver lasciato il passo ad un escursionista che già era di ritorno, con largo anticipo sulla tabella siamo alla località Paer dove il sentiero sfocia sulla sterrata che porta al santuario. Ci concediamo una breve pausa per osservare il panorama che si apre dalla sella che sovrasta di pochi metri la strada. Gli scorci panoramici ci accompagnano per tutto il resto della salita, prima sulla Val Trompia, poi sulla Valle di Lumezzane e il monte Palosso, infine verso la Corna di Sonclino, a questo punto siamo arrivati a Sant’Emilaino che troviamo ben affollato. Un intenso profumo di salamine grigliate pervade le nostre nari e intensifica il senso di fame che da una decina di minuti aveva già preso alcuni di noi, decidiamo comunque di scendere un poco per poterci accomodare in zona più tranquilla e silenziosa.
Uscendo un poco dal sentiero principale troviamo un punto riparato dal gelido venticello e, incitati dal sole che qui infuoca l’aria, ci liberiamo degli abiti accomodandoci sull’erba per gustarci un’ora di naturalezza. Prima rifocilliamo il corpo con il poco cibo presente nei nostri zaini, poi diamo gratificazione allo spirito ascoltando il nostro abile lettore Vittorio che ci inebria con tre bellicismi racconti, due dei quali sono stati inviati (e accettai) per un concorso letterario (“Racconti nella Rete” di LuccAutori).
Giunta l’ora di ripartire siamo costretti a forzare su di noi quantomeno i pantaloncini che però presto torneranno a dormire nello zaino concedendoci una discesa inebriante nella verdissima e splendida Val Vandeno. Lungo è il cammino e con tutta calma lo percorriamo con alcune brevi fermate per guardarci attorno e fissare nella mente le immagini che la natura ci sta offrendo. Ad un bivio sbaglio direzione e conduco gli amici in una fortunatamente breve digressione. Presto mi accorgo dell’errore e recupero la retta via che in poco ci porta sul fondo valle nei pressi dell’abitato di Marcheno. Da qui il ritorno alle auto è segnato da un affollato percorso pianeggiante dove dobbiamo purtroppo camminare nella pudica corazza creata dalla censoria società alcuni secoli addietro e contraddittoriamente ancora richiesta in molti contesti: cosa c’è di più sacro e santo del corpo umano? può bastare l’invenzione (umana e per molti secoli ignorata) del peccato originale a obbligarci in questo? che fastidio reale, irrisolvibile, fisico può dare la vista di un corpo nudo, anzi, gran parte del corpo è oggi quasi ovunque accettato, indi la vista di due glutei, un paio di mammelle e/o un pene? è indubbiamente ora di evolversi e tornare alla primigenia visione del corpo per quello che è: semplice e spontanea natura!
Grazie Amedeo, Angelo, Attilio, Paola e Vittorio, grazie per questa ennesima splendida giornata, grazie per il supporto che date all’azione rieducativa di Mondo Nudo e di VivAlpe, grazie.
Alla prossima.
Slalomando tra gli alti bianchi macigni esco dal piazzale e m’incammino tra le mille sottili increspature del nero asfalto, attorno a me dall’alto m’osservano le gialle corolle delle simpatiche primule che, discretamente, s’informano sulle mie intenzioni. Piegando leggermente il capo mi mostrano visi sorridenti, mentre con vocina sottile e stridula formulano graditi consigli: “modula il passo, la strada che vuoi fare è lunga assai” mi dice la prima più accosta a me, gli fa eco la compagna appresso “mantieniti idratato e stai attento al fiato”, in coro le altre aggiungono “è una bella giornata, fa freddo ma il sole presto riscalderà l’aria, divertiti”.
Ringrazio le primule e, senza sosta, imbocco la ripida salita, verdi fili d’erba si piegano a proteggermi dal vento, secche bruciate foglie si discostano per rendermi più leggero l’incedere. Lassù in alto, quasi a toccare il cielo, maestosi alberi fanno fremere le loro fronde per salutarmi e incitarmi. Il pendio si fa ancor più ripido, pervengo ad un giardino dorato dove ben più numerose primule abbandonano il loro lavoro per osservarmi, incuneandomi sotto l’ombrello delle loro foglie ne percepisco l’abbraccio formale. Macchie bianche appaiono poco innanzi, violette esultanti stanno festeggiando il loro risveglio dopo il lungo letargo invernale, per un breve attimo mi unisco a loro e insieme brindiamo alzando i calici ricolmi di rugiada.
Mi piacerebbe potermi fermare più a lungo, sdraiarmi sotto gli steli di questi magnifici fiori, farmi cullare dall’ondeggiare delle amache erbose, chiacchierare con le operose formiche e giocare con l’ape dorata che inizia a ronzare alla ricerca del nettare prelibato. Sono tentato ma una lucertola sbarazzina mi distoglie dal sogno ricordandomi del mio obiettivo odierno e allora avanti, in marcia, riprendiamo il faticoso cammino.
Bianco rugoso cemento solcato da mille canaloni, difficile scegliere quale imboccare, difficile sapere quale è il meno tortuoso, quale mi possa portare dall’altra parte in modo più diretto e meno faticoso. “Ehi amico!”, vocina sottile si alza alle mie spalle, “seguimi, vieni con me, ti guido io dall’altra parte”. Formichina gentile, parliamo del più e del meno, il suo nome è Lizzi e abita poco distante, ai piedi di Trulli, un maestoso faggio che per tutti in zona è l’anziano maestro, rispettato e onorato. Chiacchierando nemmeno m’accorgo della strada che scorre, nemmeno percepisco che da tempo sto camminando su un morbido seppur rigido fondo marrone, la terra ha preso il posto del cemento. Lizzi deve tornare sui suoi passi, le compagne attendono le granaglie che lei ha promesso di raccogliere, ci salutiamo e ognuno va per la sua strada.
Violacee pervinche applaudono al mio passaggio, verdi praterie si alternano a intricate selve di foglie secche, qualche bucaneve mi solletica la testa presto imitato dai più aggressivi denti di cane. Bianche rocce sconvolgono un cupo bosco, accecanti riflessi m’illuminano la strada. Inizia la prima discesa, piccoli cristalli di ghiaccio la rendono insidiosa, necessita un attimo di prudenza, ma presto il suolo ritorna tenero e gradevole, riallungo il passo e lesto raggiungo la seconda salita, mille piccole voci si alzano dal bosco, freschi sorrisi e parole d’incitazione: una folla di bucaneve si è raccolta attorno al mio percorso, li ringrazio, stringo loro la mano, alcuni mi abbracciano e ricambio con affetto: “purtroppo non posso fermarmi, vi prometto di tornare a trovarvi in altra occasione e ci faremo un pranzetto coi fiocchi”.
Su, ancora su, irsuti pungitopo mi guardano con sguardo truce: “suvvia miei cari, unitevi al coro festoso, allargate le vostre labbra e sorridete al sole che fa capolino da dietro il monte”, “si, si, hai ragione” mi risponde quello che sembra il capo della compagine “forza ragazzi, allegria!”. Nel sole continua la mia marcia, un sole splendente che rende radioso l’incedere, lo sguardo volge lontano, mille monti nudi si mostrano al mondo intero, semplici e sinceri, antichissimi custodi del sapere infinito. Giù, su, ancora giù e di nuovo su, altalena di salite e discese, terreno vario, a tratti reso rude dalla rigida vegetazione delle zone secche, in altri addolcito dai coloratissimi fiori compagni di quelli già incontrati. Chilometri si sommano ai chilometri, metri ai metri, ore alle ore, sempre più vicina appare la meta, le gambe ormai dure, crampi che spezzano il ritmo: “dai, dai, non cedere, siamo con te”, milioni di fievoli voci, primule, violette, pervinche, denti di leone, denti di cane, pratoline, tutti m’attorniano e mi danno forza e coraggio, il passo torna ad allungarsi, svaniscono i dolori, la fatica è solo un ricordo e… eccolo, ecco il piazzale della partenza, sono arrivato. Grazie amici, grazie fiori, piante, monti, grazie animaletti del bosco, il vostro sostegno è stato essenziale, grazie.
Per la cronaca…
L’itinerario: Cariadeghe (parcheggio degli Alpini), Boca del Zuf, Ucia, Sella di Casina Ecia, Dragoncello, San Vito, Monte Salena, Costa di Monte Denno, Maddalena, Crinale del Monte Poffa, Forte di Sant’Eufemia, Caionvico, Sella della Poffa, Pareti di Santa Lucia, San Vito, Castello di Serle, Val Piana, Cariadeghe.
In totale circa quaranta chilometri per duemila metri di dislivello e otto ore di cammino.
Tanti, tanti fiori, tantissimi, quasi ovunque, una natura esaltante ed esplosiva che mi ha reso piccolo, molto piccolo. La primavera mi ha accompagnato per gran parte del tragitto e… sebbene non nudo come i monti, non nudo come i fiori, non nudo come tutti gli altri animali, non nudo come semplicità chiede, non nudo come il corpo vorrebbe, finalmente ho dato parziale respiro al corpo, a presto quello totale!
Avevo qualche titubanza in merito a questo evento: Maniva, Cima Caldoline e anche lo stesso Dosso Alto sono luoghi molto frequentati ed è ancora presto per proporre la nudità anche sui sentieri affollati. D’altra parte ho scelto un itinerario atipico, un percorso che ho individuato e ipotizzato tanti anni addietro, un sentiero di cui nessuno mi ha mai parlato, sebbene ne abbia trovato in Internet una relazione (ma una sola e questo mi lascia comunque un bello spiraglio di fiducia).
Al ritrovo al Gioco del Maniva le facce di alcuni dei miei compagni sono perplesse: in zona ci saranno un migliaio di persone. Perplessità che si rinforza arrivati al Passo del Dosso Alto, dove lasciamo le vetture: molte le auto già presenti in zona e c’è un continuo via vai di persone che, a piedi, arrivano dal Maniva; con una giornata come quella di oggi, cielo sereno e caldo, i sentieri della zona saranno tutti super affollati.
Per imboccare il nostro sentiero dovremmo scendere circa un chilometro lungo la strada asfaltata con certo dispiacere per le piante dei piedi, allora m’invento un traversone sui prati con ripida discesa per un canalino erboso che ci permette di tagliere fuori tutta la strada e il passaggio dalla Malga del Dosso Alto. A poche centinaia di metri dal passo possiamo già spogliarci.
Il sentiero, contrariamente a quanto avevo rilevato da Internet, è senza segnaletica, comunque molto evidente: i tracciati creati dagli alpini per la prima guerra mondiale sono ampi e ben lavorati, il recupero allo stato brado è lento e molto lungo. S’inizia con un comodo traversone a mezza costa che ci porta man mano ad alzarci sulla Valle della Berga che scende ripida sotto di noi in direzione di Bagolino. Qui il gruppo si allunga sensibilmente: siamo in tanti oggi, diciotto persone più un cane, record assoluto per le escursioni di Mondo Nudo.
Parliamo del gruppo, un bel gruppo di persone provenienti da tutta l’alta Italia: tre dal Piemonte, uno dal Veneto, quattro dall’Alto Adige, dieci dalla Lombardia e di questi ultimi quattro arrivano da fuori provincia. Invero doveva esserci anche un amico da Trieste, ma all’ultimo ha dovuto rinunciare per contrarietà familiari: i coniugi sono spesso il freno più forte alla pratica della libertà del corpo, comprensibile che per amor di famiglia una persona preferisca rinunciare piuttosto che litigare, c’è però da chiedersi perché sia quasi sempre chi agogna alla nudità a doverlo fare, c’è da chiedersi perché il coniuge tessile raramente accetti o proponga un compromesso, perché quasi sempre pretenda che sia l’altro a prostrarsi e cedere, e, badate bene, non è questione di uomo o donna che le cose si ripetono identiche sia in una direzione che nell’altra. Matureremo? Vista in senso generale e generico la vedo dura, anzi negli ultimi quindici anni ho notato un forte peggioramento nel rapporto di coppia, una volta c’era sì la gelosia che forse oggi tende a calare, ma una volta c’era anche un senso di reciproco rispetto, di comunione e accordo, di mutua ammissione degli spazi personali, oggi vedo solo possesso, rigido e totalizzante possesso: le cose si fanno solo insieme. Purtroppo lo scotto da pagare è che al primo litigio ci si lascia, anziché affrontare la questione e trovare l’accordo (che poi può benissimo essere nel cedimento dell’uno verso l’altro, mutuo cedimento, una volta l’uno, l’altra volta l’altro) ognuno per la propria strada. Beh, si, tendenzialmente è anche legato all’altra brutta abitudine che ho visto diffondersi a macchia d’olio: la spasmodica ricerca delle scappatoie, di trucchi per aggirare le difficoltà, di strade traverse, irrilevante quanto poco edificanti esse siano, che permettano di evitare d’affrontare i problemi della vita.
Torniamo a noi, torniamo al gruppo. Dicevamo un bel gruppo, numeroso, interregionale, possiamo anche aggiungerci eterogeneo: sei donne e dodici uomini; età dai trenta ai sessant’anni, con una bambina di quattro anni; due vestiti, un topless, quindici nudi. Un gruppo siffatto crea di suo un ambiente protetto, invita a restare liberi anche nell’incontro con altre persone: le odierne forti perplessità iniziali vengono quasi subito attenuate e ben presto annegate.
Bene, eravamo rimasti al lungo traversone iniziale. Ad un certo punto il sentiero quasi svanisce e si biforca, con occhio critico e la relazione in mente è facile comprendere che bisogna seguire il ramo in salita, una salita leggera, tipica delle mulattiere militari, resa però più complesso dal franamento di alcune parti e dalle alte erbe che ricoprono per intero questo tratto. Dopo una decina di tornanti si perviene alla linea di crinale affacciandosi su un ampio e verdissimo pendio, che la traccia, ora più evidente, traversa in piano. Alcune piccole frane complicano sensibilmente il cammino. A metà di questo traversone Franca, una nuova amica arrivata dall’estremo confine italo francese e abituata alle facili camminate della Provenza, si sente troppo affaticata per continuare: si ferma e con lei si fermano Alberto (suo mentore per l’occasione) e Stefano (amico di Alberto e in macchina con loro). Faccio la spola tra il grosso del gruppo, già ben più avanti, e questo gruppetto bloccato, alla fine si decide che loro rientrino alla vettura e gli altri, sebbene profondamente dispiaciuti, proseguano nella loro escursione.
Dopo i tratti franati il sentiero torna a farsi bello ed evidente, passiamo ciò che resta di una postazione di guardia e il pensiero viaggia spontaneo a quei tempi: questa era una terza linea ma il lavoro di allestimento è stato pur sempre duro e talvolta anche pericoloso. Poco dopo si aggira una costola della montagna, poi una piccola valletta, altra costola con muro di confine delle malghe e… un ambiente affascinate appare al nostro sguardo: in basso la piccola malga di Ciumela, tutt’attorno dolci declivi di verde pascolo formanti serie di dossi che come onde nel mare smuovono il terreno, sopra di noi un cielo terso dall’azzurro profondo si contrappone mirabilmente alle mille tonalità di verde del pascolo, un profondo silenzio copre col suo rumoroso mantello l’intero areale, all’orizzonte si distinguono monti noti e altri meno noti o addirittura ignoti, come bambini felicemente proviamo a individuarli e dargli nome: Cima Ora, il forte di Cima Ora, Monte Suello, il Monte Baldo, il Pizzoccolo, Cima Meghè, il Baremone, Monte Telegrafo, il Bruffione, e via dicendo.
Ripreso fiato, con gli occhi pieni di colori e immagini, riprendiamo il cammino oltrepassando la malga. Icontriamo un primo segnavia in vernice, indica di seguire nell’erba una traccia che scende, scende troppo però, per cui decidiamo di abbandonarla e puntare direttamente al crinale che ci sovrasta. Giunti sul crinale ritroviamo l’evidente traccia e una buona segnaletica: si segue più o meno fedelmente il crinale, tratti piani si alternano ad altri di salita, lo sguardo cade a capofitto sulla valle del Caffaro e sull’abitato di Bagolino, ora appare il Cornone del Blumone, in fianco ad esso la Cime del Listino, più lontano il Re di Castello e il Monte Fumo.
Risaliamo un piccolo dosso con alcuni mughi e d’improvviso incontriamo lui, l’emblema della montagna, il fiore forse più conosciuto tra gli escursionisti, lei, la magica, bellissima, evocativa Stella Alpina. Sono anni che non ne vedevo, ora a distanza di pochi giorni le incontro ben due volte: stupendo! Se la prima volta erano poche e striminzite, oggi sono più vigorose, non grandi, che poi veramente grandi le si vedono solo se coltivate, ma robuste e sode, soprattutto oggi sono tante, a decine, forse superano anche il centinaio. Alcune isolate, altre in coppia, altre ancora a formare più o meno ricchi gruppetti, impossibile passare senza fermarsi ad ammirarle, impossibile esimersi dal fotografarle, siamo in forte ritardo sulla tabella di marcia ma che importa, il tempo è stupendo, al buio mancano ancora parecchie ore, godersi la montagna e i suoi piccoli tesori è, a tali condizioni, piacere irrinunciabile.
L’ultima balza, quella della vetta, appare piuttosto ripida, il sentiero l’affronta con alcuni intelligenti diagonali e, quasi senza accorgersene, ecco che ci si trova sulla cresta sommitale, una sottile traccia in bilico tra i ripidi pendii erbosi del versante orientale e le scoscese rupi di quello occidentale. Sotto di noi il Giogo del Maniva con il suo ampio piazzale e i tre alberghi, distintamente si nota l’intenso affollamento sebbene le voci e i rumori quassù arrivino molto attenuati, appena percettibili. Alzando lo sguardo ecco il Rifugio Bonardi, poi i prati del Dasdana, le Colombine, Il Crestoso, il Muffetto e la montagna dei bresciani, il Monte Guglielmo.
Alla base di quest’ultima salita Mara manifesta evidente l’effetto della fatica e sale molto lentamente con dolori e crampi. Attesa e assistita da Emanuele e Pierangelo procede con calma e frequenti pause, inutilmente i compagni, che non si erano avveduti del problema, li attendono sulla vetta del monte: i pochi metri finali richiedono a Mara e ai suo due “infermieri” una buona mezz’ora. Il gruppo di testa, dopo la rituale foto di vetta, decide così di scendere un poco e trovare un posto riparato al vento che sta battendo la cresta sommitale. Vento amico del cammino, piacevole sollievo in una giornata torrida come quella odierna, al contempo possibile fastidio durante la lunga sosta del pranzo.
Il gruppo finalmente si riunisce, appollaiati su un dosso erboso, costantemente visitati da miriade di piccoli insetti abitanti dei pascoli alpini, consumiamo il nostro meritatissimo seppur frugale pasto. Al termine Vittorio ci intrattiene con l’ormai abituale lettura, oggi ha deciso ci incantarci misurandosi in una prova esemplare: ben ventitré pagine. Ovviamente prova largamente superata!
Si riparte e in breve siamo alle macchine, lungo la discesa l’unico incontro, come sempre tranquillo e cordiale, di oggi con altro escursionista: un giovane infermiere che sta velocissimo (sarà di ritorno al parcheggio ancor prima che noi si riparta) salendo alla vetta.
Una sosta al bar del Maniva per salutarci dinnanzi a una bibita e poi via, ognuno a casa propria. Io con gli occhi e la mente pieni di immagini meravigliose, di momenti incommensurabili, della voglia di ripetersi al più presto, della speranza di rivedere un gruppo tanto numeroso ed eterogeneo, della certezza che potremo presto assaporare senza limiti la gioia del nostro doppio stile di vita: montagna e nudo. Penso di poter affermare che gli stessi sentimenti erano nello spirito dei miei compagni di giornata: Vittorio, Marco, Francesca, Luise, Angelo, Alberto, Franca, Alessandro, Mara, Pierangelo, Riccardo, Aurora, Stefan, Attilio, Paola, Stefano, Riccardo. Grazie a tutti voi amici carissimi, grazie alla montagna, grazie agli altri amanti dell’alpe, grazie a coloro che vorranno prossimamente unirsi a noi, vestiti o nudi che siano. Grazie!
12 luglio 2015, Dosso Alto, Collio Val Trompia (BS), sesta escursione di questa stagione nell’ambito del programma “Orgogliosamente Nudi”. Trecento novanta metri di dislivello, partenza dai 1764 metri del Passo del Dosso Alto e arrivo ai 2064 metri del Dosso Alto. Partiti all’incirca alle 11, rientrati alle macchine attorno alle 16.30. 7 ore e mezza in giro per il monte, 7 ore nel più piacevole e più confortevole abbigliamento: la nostra sola pelle.
Ci sono posti belli e altri meno, ci sono luoghi che ricordi piacevolmente e altri che preferisci dimenticare, ci sono località in cui torni volentieri e altre in cui non torni più, poi ci sono quei posti che ti restano impressi non solo negli occhi ma anche nel cuore, posti che ti ammaliano e dei quali non sapresti più farne a meno. Certo è una questione molto soggettiva, ma poco importa, per me il Parco Naturale della Rocca e del Sasso, sito in quel di Manerba del (lago di) Garda, in provincia di Brescia, è uno di questi ultimi.
Verde, tanto verde, mille tonalità di verde che, intersecandosi ai margini, si alternano fra loro creando un armonico e rilassante patchwork naturale. Prati frammisti a tratti di bosco, nel mezzo qualche piccola casetta. Una collina delinea per intero il margine nord occidentale e su di essa, nel punto di massima elevazione, le rovine di un antico maniero: la Rocca di Manerba. Da qui la collina crolla quasi verticalmente sul bosco sottostante per poi risalire dolcemente al vicino Sasso, punto di massima elevazione della lunga e alta falesia di rocce sedimentarie che contorna a nord e a ovest il parco. Sotto di essa le azzurre acque del lago, un lago grande, che si vede estendersi lungamente in ogni direzione.
Diverse più o meno nascoste linee di chiaro marrone identificano le comode stradine e i bei sentieri che s’insinuano all’interno di questo bucolico paesaggio, tracciati che permettendo al turista pedestre o ciclista splendide passeggiate buone per ogni stagione.
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Tre comodi parcheggi, quelli gratuiti di Montinelle e di Pisenze e quello a pagamento detto della Rocca, con annesso bar, sono la base di partenza per le passeggiate o le spiagge. Volendo si può parcheggiare, a pagamento, anche a Porto Dusano da dove un bel sentiero, a tratti magari un po’ troppo abbandonato alla vegetazione, in un quarto d’ora permette di risalire alla zona del parco.
Dalla vetta della Rocca lo sguardo oltre che, come già detto, navigare libero sulle acque del lago, si libra a trecentosessanta gradi mostrandoci il Monte Baldo, la valle del Sarca, i monti di Tignale, il Castello di Gaino, Il Pizzoccolo, il monte Spino, i monti di Salò e di Villanuova, le colline moreniche che cingono a sud il lago e sulle quali pregiati vigneti ci donano vini conosciuti in tutto il mondo. Abbassando lo sguardo subito sotto di noi la splendida baia di Pisenze con la sua affollatissima spiaggia, appena dietro a questa la punta Belvedere e la limitrofa isola di San Biagio (anche conosciuta come isola dei Conigli), segue l’ampia baia di San Felice con il Porto Torchio, la Romantica e la Punta di San Fermo con l’ampia isola del Garda, dietro si può intuire la piccola e simpatica Baia del Vento, seguita dalla ben più ampia Baia di Salò. Salendo verso nord ecco gli abitati di Gardone Riviera, Maderno, Toscolano, Gargnano, poi una punta rocciosa copre la vista della restante costa settentrionale bresciana. Sulla sponda opposta da nord s’individuano i paesi di Malcesine, Brenzone, Torri del Benaco, Garda con la sua inconfondibile baia racchiusa tra la Punta di San Vigilio e la Rocca di Garda, Bardolino, Lazise, Pacengo. A sud s’intravvede Peschiera, a seguire man mano più visibili Lugana, Sirmione con la sua tipica penisola e le Grotte di Catullo, Rivoltella, Desenzano, la baia di Lonato e Padenghe, indi Moniga.
Alla vetta della Rocca ci si può arrivare a piedi per un ripido sentiero che sale, aggirando per cengia il salto roccioso che lo caratterizza, lungo il versante settentrionale. Ad esso possiamo arrivare con uno qualsiasi dei sentieri del parco, sia partendo dal paese di Manerba, che dalla baia di Pisenze. Al maniero possiamo arrivarci anche in auto, seguendo le indicazioni reperibili nei pressi di Montinelle: dall’ampio parcheggio ci vogliono solo cinque minuti di cammino lungo ripidissima strada asfaltata chiusa al traffico. Nei pressi del parcheggio è sita la Casa del Visitatore dove un’area picnic e un bar consentono un opportuno punto di fermata e ristoro. All’interno della Casa troviamo il museo, assolutamente meritevole di una poco frettolosa visita: al primo piano il percorso archeologico, al secondo il percorso naturalistico. Al servizio del visitatore anche delle guide professioniste per una visita accompagnata alle bellezze del parco, che oltre ai già decantati paesaggi ci offre una ricca varietà di piante, variopinti fiori, un piccolo laghetto dal quale parte un’antica galleria artificiale costruita per evitare l’inondazione della campagna circostante scaricando a lago l’eventuale eccesso di acqua.
Per quanto riguarda le attività balneari tre sono le spiagge direttamente annesse al parco: Pisenze, Rocca e Dusano.
Spiaggia di Dusano
Piccola e spesso molto affollata per la sua vicinanza al parcheggio e a diversi ristoranti. È formata da grossi ciottoli che degradano velocemente in acqua: ad una ventina di metri da riva la profondità già si aggira intorno ai tre metri per poi degradare più dolcemente. Il fondale inizialmente a ciottoli diviene quasi subito fangoso con zone ricoperte da campi di alte piante subacquee fra le quali girano persici reali, persici sole e tinche.
Spiaggia di Pisenze
Molto più lunga, seppur sempre di limitata larghezza e sempre a ciottoli, altrettanto affollata e pure servita da un comodo parcheggio. Come bar e per mangiare ci si può appoggiare al buon omonimo ristorante che si trova alla fine del parcheggio, proprio a fianco della stradina che porta in spiaggia. In acqua la profondità aumenta un poco più dolcemente e il fondale è, così come la spiaggia, nettamente distinto in due zone: sul lato occidentale dopo una prima fascia di ciottoli diventa sabbioso e lo resta fino alle boe (300 metri da riva) che delimitano la zona balneare e tengono le barche lontane da chi nuota; sull’altro lato una vasta zona di scogli si prolunga anche in acqua determinando un fondale roccioso che resta tale fin oltre le dette boe e, pur senza potersi aspettare la varietà e quantità di pesce osservabile al mare, permette di praticare lo snorkeling con discreta soddisfazione.
Spiaggia della Rocca
Arriviamo alla mitica e splendida spiaggia della Rocca: molto meno frequentata delle altre due, ci si arriva dal lato sud orientale del parco seguendo, a partire dall’omonimo parcheggio (bar), prima una stradina sterrata e poi un evidente sentierino. Oltrepassato un boschetto si supera, per apposito varco, un vecchio muro di cinta e con un aereo passaggio lungo una cengia si rientra nel bosco dove il sentiero si biforca: a destra si scende ripidamente alla parte meridionale della spiaggia, a sinistra si prosegue più dolcemente portandosi sul lato settentrionale della spiaggia. Improvvisamente il bosco lascia lo spazio ad alcune piccole e strette spiagge di ciottoli alternate a tratti di lisci scogli. A pochi metri (20) da riva già troviamo acqua molto alta (5 e più metri), ci sono comunque, specie se il livello del lago è attorno al suo zero idrometrico, ampi tratti che consentono una tranquilla nuotata anche a bambini e neofiti del nuoto. Nuotare qui è un poco come farlo lungo le scogliere della Sardegna, non avremo la stessa limpidezza delle acque, anzi, ma il fondale roccioso e i tanti grossi massi ricreano la stessa conformazione e danno le stesse emozioni, se siete fortunati potreste osservare grossi cavedani o essere avvolti da nuvole di piccoli persici reali. In zona anche alcuni spot d’immersione spesso frequentati dai diving del lago.
Ho definito per me incantevole questo luogo anche se gli manca qualcosa che lo renderebbe addirittura magico e che mi ci farebbe ritornare con maggiore frequenza e assiduità, un qualcosa che farebbe qui arrivare sicuramente molti altri che come me preferiscono immergersi nella natura così come natura chiama: nudi.
Camminare e nuotare vestiti è bello, farlo nudi è molto meglio! Anche solo un paio di leggerissimi pantaloncini o un micro costume da bagno sono di troppo e fanno emotivamente, sensitivamente, fisiologicamente mancare qualcosa (e c’è spiegazione scientifica). Purtroppo è difficile comprenderlo senza provarlo, posso solo invitarvi caldamente a provarci, invito Sindaco e Assessori di Manerba ad accompagnarmi in una escursione e in una nuotata senza vestiti, alla fine ne sarete assolutamente convinti, così come lo sono io e tanti altri, tutti coloro che ci hanno provato.
Comprendo che per un sindaco, un assessore, un partito possa sussistere la paura che la gente del posto abbia da recriminare. Tutti? No, no di certo: fino ai primi anni del duemila la zona della spiaggia era da tempo (almeno 20 anni) luogo abitualmente frequentato da nudisti e nessuno se ne lamentava, anzi, ho potuto personalmente osservare che le persone vestite condividevano tranquillamente il posto con quelle nude, tranquillamente!
Qualcuno comunque ci sarà, verissimo, ma ci furono anche coloro che si ribellarono all’istituzione del parco, eppure è stato fatto, allora perché non questo? La gente si abitua alle cose e così come si è abituata al bikini, alle minigonne, ai tatuaggi, al piercing, ecco che inevitabilmente, se messa a contatto continuo con la nudità, si abituerebbe anche a questo. Ineluttabile, inevitabile, sicurissimo. Se poi consideriamo che la zona è per la maggior parte frequentata da turisti tedeschi per i quali il nudo è stato naturale e normale, possiamo facilmente presupporre che la scelta incontrerebbe il bene placito e l’adesione di tantissimi turisti già in loco, ai quali nel breve termine si unirebbero altri.
Paura di chi possa vedere la nudità come occasione per atteggiamenti inopportuni o fastidiosi? Beh, intanto costoro ci sono proprio per effetto dei tabù del nudo per cui eliminandoli è quantomeno palese che nel tempo costoro sparirebbero, poi appare altrettanto chiaro che opponendovi un’ampia frequentazione nudista con l’aggiunta di quei tantissimi tessili che amerebbero l’opportunità di potersi ogni tanto totalmente liberare dalle vesti, possiamo essere certi che tali personaggi svanirebbero: in parte perché, come detto, guarirebbero del male che li attanaglia, per altra parte perché se in mezzo a una decina di persone nude qualcuno può anche permettersi di fare il gradasso, lo stesso di sicuro non avvererebbe in mezzo a centinaia di persone (nude e vestite).
Rendere vestiti opzionali un’area del genere, con una tale estensione, sarebbe un episodio ad oggi unico in Italia, il primo del genere e certo porterebbe economia alla zona e prestigio all’amministrazione comunale che decidesse in tal senso.
Si, si, sarebbe sicuramente una grandiosa, magnifica, strepitosa idea quella di rendere vestiti facoltativi l’intero areale del Parco della Rocca di Manerba. Idea vincente!
Link utili
Parco archeologico naturalistico Rocca di Manerba del Garda
Pendulo, cotonoso, bianco, il piccolo batuffolo si confonde con gli altri mille suoi simili formando una sfilacciosa, informe, discontinua massa bianca che si staglia nel verde intenso dell’acquitrinoso prato da torbiera. Grigie e dure placche rocciose dolcemente o imperiosamente dal prato s’innalzano perdendosi nell’azzurro intenso del cielo terso. Lontano, sopra balconate rocciose solcate da bianche lingue di candita neve, svetta solitaria una nera rocciosa cuspide triangolare.
Sulla sinistra brillano con il loro verde intenso ripidi pendii erbosi, contornati alla loro base da contorti cespugli d’ontano tra i quali qua è la s’intravvedono isolati e timidi larici. Anche qui rupi rocciose s’incuneano tra la vegetazione, alcune grigie e compatte, altre rosse e franose cadono nel profondo e cupo valloncello scavato dal millenario scorrere del torrente.
Al di qua, ancora verdi prati cosparsi dalle mille gocce di gialli fiori. Rossi rododendri aumentano il contrasto di colori e ad essi s’aggiunge il marrone intenso di tronchi mirabilmente tagliati e, altrettanto mirabilmente, assemblati fra loro a formare quattro pareti che s’ergono da muri di grigia pietra. Marrone pure il tetto di lamiera sul quale sventolano una bandiera italiana, i cui colori ripercorrono quelli naturali visti tutt’attorno, e una rossa manica a vento. Piccoli quadri intagli interrompono la continuità del muro sul lato torrente: finestre deliziosamente contornate da tendine a quadrettini rossi e bianchi, un insieme armonico che crea un senso di dolce accoglienza e familiarità.
Sul lato montagna una porta, varcata la quale ci si trova in una prima ampia stanza arredata con tre armadi, tre panche e un bel tavolo di legno massiccio. Da questa un’altra porta adduce alla seconda stanza: la cucina. Per riscaldare l’ambiente una stufa a legna, di quelle stufe in ghisa che evocano antichi ricordi, un fornello a gas per cucinare, il lavello, tre capienti armadi, un lungo tavolo di legno massiccio contornato da due panche e due sgabelli sempre in legno. Ancora una porta e dietro a questa la terza stanza dove trovano collocazione cinque letti a castello per un totale di dieci posti a dormire: rigide e intatte le reti, buoni i materassi, ottime le tante coperte ripiegate e raccolte in un armadio. Altri venti posti letto sono collocati in un edificio separato, ma limitrofo al primo, ristrutturato in data più recente rispetto a quello principale. Il piano terreno dell’edifico principale è utilizzato ancora dal pastore, ma potrebbe, in futuro, diventare un comodo e importante ricovero d’emergenza, con cucina e quattro posti letto.
Un piccolo servizio igienico è situato vicino all’ingresso dell’edificio principale. Di fronte, all’aperto, contornato dal verde dei prati, dal giallo dei fiori e dal marrone delle panche, un tavolo in granito con scolpito un grande cappello d’alpino a ricordare, insieme all’altro cappello, stavolta scultoreo, posto sulla rupe che sovrasta questa zona, chi ha voluto questo rifugio e lo gestisce con cura e amore: gli Alpini di Braone!
Siamo alla Malga Foppe di Sopra, ora Rifugio Prandini (non custodito, bisogna chiedere le chiavi), collocata nella media Valle di Braone, in posizione strategica e panoramica: a ovest il lariceto che, frammisto alle rupi, cade sulla verdissima e bellissima piana della Malga Foppe di Sotto; a est le già decantate dolci placche rocciose, frammiste a dossi erbosi e a un mare di incantevoli cuscini verdi e rossi di Rododendro, che conducono alla piana delle Foppe di Braone e, con essa, alla parte alta della Valle di Braone, sopra la quale svettano la Cima Galliner e la Cima Terre Fredde; alla sinistra orografica una fascia di ontani e poi ancora placconate rocciose cosparse di rododendri che nascono da un fondo di torbiera alpina e salgono alla base di una cima senza nome per poi condurre alla base della Cima di Stabio, all’omonima Porta e al limitrofo Corno Frerone; alla destra orografica le verdi Somale di Braone sulle quali si notano le tracce di diverse mulattiere della Grande Guerra.
In questo incantevole luogo arriviamo, noi di “Orgogliosamente Nudi” 2014, nel tardo pomeriggio di sabato 5 luglio con l’intenzione di restarci, almeno alcuni di noi, fino al successivo sabato 12 luglio. L’idea originaria era quella di salire dal rifugio Tassara in Bazena attraverso il Passo del Frerone, ma la tanta neve ancora presente in quota ci ha suggerito prudenzialmente di cambiare percorso e salire, come lo scorso anno, dall’abitato di Braone. La variazione ci comporta due ore in più di cammino e, soprattutto, mille metri di dislivello aggiuntivi, cosa che, visti i corposi e pesanti zaini, non si presenta certamente facile. Fortunatamente il custode del rifugio, il gentilissimo e sincero Piero, si mette a disposizione per portarci gli zaini fino all’inizio della mulattiera vera e propria.
Leggeri percorriamo il tratto di strada e in un’ora e mezza siamo alle Case di Scalassone, il punto d’incontro con Piero e Francesca, una di noi che è salita in macchina insieme agli zaini. Ci carichiamo dei pesanti fardelli e, salutato Piero, ci incamminiamo verso la nostra lontana meta.
La mulattiera inizia dolcemente e sale, nel fitto bosco, con frequenti tornanti. Dopo un’ora, aggravato da uno zaino che ammonta a venti chili, inizio ad accusare la fatica e necessito di frequenti brevi soste per alleviare i muscoli delle gambe contratti dai primi sintomi di acidosi. Dopo due ore, comunque, in perfetta tabella di marcia perveniamo alla piana di Malga Foppe di Sotto e qui ci fermiamo per mangiare qualcosa e riposare spalle e gambe.
Ripartiti, velocemente si percorre la piana per poi affrontare l’ultima balza, meno erta della prima e più corta, eppure più faticosa, vuoi per il sentiero che l’affronta a tratti più direttamente, vuoi per l’irregolarità del fondo su cui si cammina: entro in crisi profonda e medito di lasciare qui metà del carico per ritornare a prenderlo più tardi, dopo essermi ben riposato. Scatta così quel meccanismo di solidarietà che ben conoscono tutti coloro che praticano seriamente l’alpinismo: Francesca avendo lo zaino più leggero di tutti mi offre a più riprese lo scambio di zaini, finché mi decido ad accettarlo. Il cammino può procedere più spedito e in breve perveniamo al rifugio, dove, ancor prima di sistemarci, recuperiamo le forze con pane e salame e una bella birra fresca.
Apriamo il rifugio, depositiamo i viveri sistemando quelli non deperibili in cucina e quelli deperibili nella prima stanza dove l’assenza di riscaldamento ovvierà all’assenza di un frigorifero, prendiamo possesso delle brande e ci prepariamo per la cena: chi apparecchia il tavolo, chi si occupa di cucinare, chi si riserva di sparecchiare e lavare i piatti dopo mangiato, una equa e spontanea suddivisone dei ruoli dove tutti fanno qualcosa e nessuno resta inerme ad osservare gli altri che lavorano anche per lui.
Dopo cena, mentre il fuoco scoppietta nella stufa e riscalda il locale, le solite chiacchiere da rifugio, nel nostro caso condite da qualche argomento in più: il nudismo e il piacere di vivere nudi, di assaporare la montagna senza barriere, avvicinandosi ad essa in tutta naturalità, per percepirne il suo minimo alito vitale, il suo più sottile respiro, la sua anima ribelle, per assorbirne con ogni millimetro della nostra pelle le sue tante essenze profumate e corroboranti. Presto, però, la stanchezza prende il sopravvento ed entro le ventidue siamo tutti stesi in branda e scendiamo più o meno velocemente nel mondo di Morfeo.
Domenica mattina, ore 6, sono già in piedi, gli altri ancora dormono alla grande, dopo una lunga attesa, visto che ancora nessuno si alza, decido di farmi un giro attorno, visitando la torbiera antistante il rifugio e il dosso che lo sovrasta. Rientrato al rifugio scopro che qualcuno, alzatosi per andare in bagno (poi si scoprirà essere Stefano), m’ha chiuso fuori, che fare? La temperatura non è rigida ma fa comunque abbastanza fresco e anche se vestito dopo un poco sento il bisogno di riscaldarmi: il versante di fronte già sta prendendo il sole, bisogna solo salire all’incirca duecento metri di dislivello, così riparto e mi porto velocemente verso il sole e il caldo.
Ridiscendo dopo circa un’ora, finalmente qualcuno si è alzato e posso rientrare nel rifugio a prepararmi la colazione insieme a Marco, marito di Francesca. Nel frattempo uno ad uno si alzano anche tutti gli altri: prima l’altro Marco (che scenderà immediatamente a valle: il suo soggiorno poteva durare solo questi due giorni), poi Stefano e infine Francesca. Per le nove e mezza siamo pronti a partire per effettuare la prima delle escursioni previste: si punta al Forcellino di Mare e poi vedremo cosa fare.
A causa della temperatura non confortevole per via di densi nuvoloni che si sono alzati a coprire il sole, il primo tratto di salita lo facciamo da vestiti. Breve sosta al Rifugio Gheza dove scambiamo due parole con i volontari del CAI di Darfo, saliti a preparare il rifugio per la festa che si terrà nel prossimo fine settimana, poi ripartiamo alla ricerca del sole che si vede illuminare i prati delle Somale di Braone. Poco dopo possiamo finalmente spogliarci e fruire della libertà data dalla nudità: nel giro di pochi minuti le nostre membra si rilassano assorbendo intimamente il dolce calore del sole, il sudore non più trattenuto dalle vesti si volatizza velocemente nell’aeree concedendo respiro e freschezza alla pelle, il sistema di termoregolazione non più condizionato e ingannato dall’ingabbiamento dei genitali riprende a funzionare al meglio, camminiamo velocemente e senza soste lungo il ripido pendio.
In venti minuti scarsi siamo al forcellino dal quale il nostro sguardo può spaziare a trecentosessanta gradi: prima di tutto notiamo il sottostante occhio azzurro del Laghetto di Mare, piccolo bacino d’acqua a picco sulla Valle Listino, poi la vista si allunga verso i costoni e le cime più lontane che, da profondo conoscitore dell’Adamello, provvedo a identificare e illustrare ai miei compagni.
Finito di osservare la meraviglia del luogo e del paesaggio ci rimettiamo in camino per salire il primo dosso delle Somale di Braone. Da qui, per cresta, si continua con mirabile visione a picco sulla Val Paghera e le Case di Paghera: molte le essenze floreali che incontriamo, poi una postazione di guerra collocata proprio sul filo di cresta e la relativa trincea di avvicinamento scavata sul versante meridionale della montagna. Procedendo sempre per cresta miriamo alla Cima del Vallone, ma il percorso si fa impervio e la traccia di sentiero svanisce completamente in mezzo a cespugli e rocce, per cui decido di abbassarmi ad una traccia più evidente e per questa ritornare al Forcellino di Mare.
Pervenuti al detto forcellino, visto che la metà giornata ancora non è giunta, su sollecitazione di Francesca decidiamo di salire un poco verso la cima Galliner. Seguendo la vecchia e qui molto visibile mulattiera di guerra saliamo per circa mezz’ora e poi ci fermiamo a mangiare. Marco ne approfitta per controllare le previsioni del tempo: domani sarà ancora bello, ma martedì pioggia tutto il giorno, qualcuno comincia a premeditare un’interruzione anticipata del suo soggiorno.
In discesa ancora una, stavolta più lunga, sosta al Rifugio Gheza dove quelli del CAI di Darfo ci raccontano la storia di questo rifugio, poi giù al nostro campo base, dove pensiamo sia ad attenderci Antoine, l’amico che deve arrivare oggi, venuto fin quassù dall’Olanda. Invece non è ancora arrivato, rifacciamo i conti e in effetti è presto: arriverà non prima delle cinque. Alle cinque di Antoine non c’è segno, mi abbarbico su di una rupe teso a scrutare la valle nella speranza di vederne la figura che risale il sentiero. Quando ormai le preoccupazioni iniziano a farsi serie ecco che, dal bosco sottostante, sbuca una nuda figura: “Antoine! Antoine!” sollevato mi lancio giù per il sentiero correndogli incontro per aiutarlo a portare lo zaino negli ultimi terribili metri di cammino. Ora ci siamo tutti, facciamo le debite presentazioni visto che Antoine lo conoscevo solo io, poi prepariamo la cena che sarà accompagnata e seguita da tante chiacchiere per informarci sul nudismo in Olanda e confrontarne la situazione con quello italiano. Alle ventitré tutti a nanna.
La mattina di lunedì si presenta solare, sebbene le solite nubi girino attorno alle creste che ci sovrastano coprendo fastidiosamente il sole. Francesca, intimidita dalle previsione del martedì e non volendo scendere a valle sotto la pioggia, convince il marito a scendere in giornata, Stefano, che è in auto con loro, non può fare altro che adeguarsi: preparano i loro zaini mentre io sviluppo i piani per la giornata. Come fare per allungare la condivisione della stessa anche con i tre amici che hanno deciso di scendere? Come far fare loro ancora una piacevole escursione in zona? Presto fatto: percorreremo tutti assieme la vecchia mulattiera di guerra lungo le pendici delle Somale di Braone e della Cime del Vallone!
Partenza! Velocemente risaliamo al rifugio Gheza, stavolta spogliandoci quasi subito visto la giornata maggiormente assolata. Il rifugio oggi è vuoto e possiamo tranquillamente passare senza coprirci. Saliamo ancora un poco fino alla freccia che indica l’inizio della mulattiera: sarà l’unica indicazione di questo percorso. La prima parte è ben visibile e tranquilla, ma ben presto le cose mutano: la traccia si fa più stretta, l’esposizione aumenta vertiginosamente e l’erba invade gran parte del sentiero. Entriamo in un canalone scavato dall’acqua, qui il passaggio, anche se breve, si fa particolarmente delicato per la presenza di una frana. Poco oltre, con mio sollievo (io non ho problemi e apparentemente non ne hanno nemmeno i miei compagni, ma, da ideatore e conduttore dell’evento, nonché da ex Istruttore Nazionale di Alpinismo, sento pur sempre il peso della responsabilità), l’esposizione si ridimensiona. Dopo un lungo traverso nei prati, ci avviciniamo a delle rupi rocciose ed è evidente che la mulattiera non può passare attraverso queste, guardando verso il basso individuo i debolissimi segni della mulattiera che qui scende con alcuni stretti tornanti. Segue un nuovo diagonale, poi ancora tornanti a scendere portano in una radura con le classiche alte erbe di malga, apparentemente sembra non esserci modo di passare oltre ma senza esitazione mi lancio attraverso le alte erbe: ho percepito, al di là delle stesse, uno spianamento del terreno, non può essere altro che il residuo dei lavori militari. Infatti la mulattiera si evidenzia poco sotto.
Il tracciato continua in lievissima discesa, a tratti è pressoché totalmente nascosto dalla vegetazione, anche se inequivocabili lastre di granito ne segnano il lato a valle, a tratti è più evidente. Dopo un lungo traverso siamo vicinissimi alla Cima del Vallone e sulle sue pendici, netto, il segno di una larga mulattiera. Ci separa una tutto sommato tranquilla cengia terrosa che taglia un ripidissimo canalone erboso. Tranquilla? Eh no, all’improvviso un pastore che ci osserva dall’altro lato della cengia si mette a urlare: “Sassooooo, sbrigatevi, non fermatevi!” Io, già arrivato da lui, mi giro e vedo immediatamente che in alto nel canalone ci sono numerose pecore al pascolo le quali, incuranti di chi sta sotto, non si fanno la premura di non far cadere sassi: già poco prima, ci riferisce il pastore, una pecora è stata uccisa, colpita in testa da uno di questi massi. “Va beh, è andata, il sasso è scivolato a valle lentamente passando per un canalino secondario senza colpire nessuno di noi, però” penso “poteva anche avvisarci prima che passassimo sotto il canalone, quando eravamo ancora in punto sicuro, invece di aspettare che ci fossimo in mezzo e in pericolo!”
Ancora due chiacchiere con il pastore e poi riprendiamo la discesa ora più tranquilla e semplice. In breve siamo sulla mulattiera principale, risaliamo alla piana della Malga Foppe di Sotto dove pranziamo tutti insieme, poi la sofferta separazione: Marco, Francesca e Stefano scendono a valle, io e Antoine risaliamo al Prandini con l’intenzione di rimanerci fino a sabato.
La sera inizia a piovere e continua ininterrottamente per ventiquattr’ore costringendoci a restarcene nel rifugio per tutta la giornata di martedì. Antoine la passa prevalentemente a letto o studiando per un libro che sta scrivendo, io in parte mi occupo della stufa, in parte del taglio della legna, in parte delle pulizie, in parte di scrivere le bozze per le relazioni del soggiorno e dei percorsi fatti.
Nella notte il cielo si rasserena e mercoledì mattina la giornata si presenta calda e soleggiata. In attesa del risveglio di Antoine, che se la dorme alla grande fino alle nove, riparto a perlustrare il territorio antistante il rifugio e che adduce alla Porta di Stabio: ci si può sicuramente tracciare un percorso alternativo (poi la cosa mi viene confermata da Piero che già più volte ha seguito questa via di salita) e creare un interessante anello, ma, non conoscendo bene Antoine, per maggiore sicurezza decido di salire per il sentiero segnato.
Alle nove e mezza ci mettiamo in cammino e velocemente risaliamo la parte mediana della Val di Braone pervenendo al bivio per la Porta di Stabio. Qui il sentiero sale direttamente per l’erto pendio, la segnaletica a volte è ben visibile, altre volte stinta e difficile da individuare, ma il percorso è evidente e senza esitazioni porto il compagno alla meta, seguendo, verso la fine, un percorso che ci permette di evitare quasi tutta la neve. Magica la sensazione di solitudine che si prova: intorno a noi chilometri di montagna senza altre presenze, nemmeno quelle dei camosci che, viste le tante loro cacche qui presenti, speravo di vedere. Assordante l’immenso silenzio che pervade questi luoghi. Stupendo il panorama: a nord la vista spazia sui monti dell’Aprica e su quelli del settore meridionale dell’Adamello; a sud si vedono nettamente i radar del Dasdana e la lunga cresta che da questi porta a Monte Campione, dietro il quale evidente l’inconfondibile sagoma del Guglielmo, più a destra i monti della bergamasca, poi il più vicino Monte Altissimo di Borno e dietro altri monti non ben definibili, in lontananza la sagoma bluastra delle Alpi Liguri e degli appennini bolognesi; sotto di noi l’iride blu di uno splendido laghetto alpino e, a seguire, tutta la Val di Stabio, dolce e verde, molto invitante.
Vorrei scendere al laghetto sottostante ma il percorso complicato (ripido terreno franoso con un bel tratto di catene di sicurezza) e le nuvole nere che sempre più minacciose arrivano dal Cornone del Blumone, noto catalizzatore di maltempo, mi convincono a rinunciare e a sollecitare il ritorno a valle. Giusto il tempo di oltrepassare la conca innevata sottostante il valico che inizia a grandinare! Prima sono piccoli chicchi simili a palline di polistirolo, poi pian piano la dimensione degli stessi cresce diventando dolorosa per mani e testa, infine cresce anche l’intensità della grandine e nel giro di pochi minuti il paesaggio da verde diventa bianco. Fortunatamente, nonostante alcuni tuoni, non c’è né vento né pioggia e la temperatura rimane confortevole: il nostro cammino procede tranquillo e regolare, senza problemi rientriamo al rifugio dove abbiamo la base.
La sera, sfruttando un momento di calma tra le piogge che hanno ripreso con intensità, riesco a collegarmi telefonicamente con mia moglie e vengo a sapere che le previsioni per i giorni successivi non sono buone (mattina bella ma pomeriggio temporali) e che lei non sta tanto bene: suggerisco ad Antoine di ridiscendere a valle venerdì, lui rilancia proponendo di scendere ancora giovedì stesso e questo decidiamo di fare. In attesa della cena preparo lo zaino ed effettuo le pulizie del rifugio, la mattina successiva, visto il bel tempo, di buon ora sveglio il mio compagno, rapida colazione, ultime pulizia e poi giù senza sosta fino a Braone: Antoine fatica alquanto a camminare sul terreno sconnesso e la sua discesa è piuttosto lenta, ci mettiamo ben quattro ore e mezza per arrivare alla macchina.
Ultimi sguardi verso l’alto, un saluto malinconico a questa valle meravigliosa, una valle che mi ha stregato già nel lontano 1988 quando l’ho risalita in pieno inverno, una valle che mi rivedrà sicuramente: anche se questo potrebbe per me comportare il perdere un luogo selvaggio e solitario dove poter vivere esperienze di montagna piene e appassionanti, ho deciso di scrivere non solo le relazioni dettagliate sui percorsi effettuati e sugli altri possibili, non solo di redigere articoli da inviare alle principali riviste di montagna, ma anche di realizzare un opuscolo su di essa dato che merita d’essere meglio conosciuta e frequentata, lo merita davvero.
La riconsegna delle chiavi, il pagamento di quanto dovuto per il soggiorno e i saluti a Piero concludono questo magico, per quanto sofferto, soggiorno. A Piero formulo la mia disponibilità a collaborare per la rimessa in funzione della mulattiera di guerra percorsa tre giorni prima, ma anche per altri lavori che possano essere necessari, quali il ripristino della segnalazione sul percorso della Porta di Stabio o la manutenzione del rifugio Prandini: se vuoi partecipare agli eventuali lavori segnalami nominativo, indirizzo e-mail e numero di telefono (modulo di contatto), grazie.
Per concludere devo e voglio ringraziare innanzitutto Piero, il custode del rifugio, per la sua estrema gentilezza e l’enorme diponibilità, poi gli Alpini di Braone per la costruzione e l’ottima gestione del rifugio Prandini, indi il Sindaco, gli Assessori e gli abitanti di Braone per la cura che hanno nei confronti del loro prezioso tesoro, infine i miei compagni di soggiorno: Antoine l’olandese, Francesca dall’Alto Adige, Marco pure dall’Alto Adige, l’altro Marco da Milano, Stefano da Chioggia. Grazie, grazie mille a tutti!
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