Archivio mensile:Maggio 2017
La nudità e il suo uso come simbolo
Le definizioni di simbolo date dai dizionari sembrano essere troppo ristrette o troppo imprecise rispetto a come la parola viene usata e alla varietà della dinamica semantica originata dai comportamenti concreti. Soprattutto viene omesso nelle definizioni il fatto che un simbolo è “operatore/moltiplicatore semantico”. Se pensiamo al simbolo della croce, ad esempio, abbiamo chiara l’idea di come partendo da un episodio circoscritto (la crocifissione di Gesù Cristo) si sia avviato un processo di metaforizzazione (trasferimento di significati) che ha dato origine a numerosi sinonimi, si sia continuamente scritto su questo argomento, infinitamente commentato, variamente interpretato; come sia un concetto inesauribilmente vivo e produttivo, aperto a un continuo aggiornamento, fino alle accezioni d’uso personale.
Nell’antichità greco-romana, simbolo era una metà di qualcosa strappato o spezzato che, ricongiunta con l’altra, garantiva il riconoscimento e l’autenticità di un messaggio o l’identità di una persona. Come la mezza moneta o medaglia appesa al collo dei neonati portati alle ruote dei conventi.
Per i Romani i symbola erano le quote con le quali ciascuno dei commensali contribuiva in parti uguali alle spese per un banchetto comune, “alla romana” appunto.
L’unicità del contrassegno ha esteso il suo uso, e poi il significato, fino a valere come chiave, combinazione di cassaforte, clausola di testamento, parola d’ordine, password che permetta l’accesso a qualcosa destinato unicamente al suo possessore.
Carl Gustav Jung dà questa definizione che ci serve – esattamente come un grimaldello logico –, per sviluppare il tema di base:
«I simboli raffigurano in forma visibile un pensiero non pensato coscientemente, ma presente solo in forma potenziale, vale a dire non evidente, nell’inconscio, e che si chiarisce soltanto nel processo del suo farsi conscio».
Ed è proprio ciò che accade quando singolarmente o come società siamo confrontati con il nudo e la nudità.
Le arti figurative, soprattutto, hanno cercato di cogliere e di esprimere le varie sfaccettature dei punti di vista. E il lavoro “ermeneutico” – cioè di riflessione, estrazione e attribuzione di significato – si è trasferito anche nella vita quotidiana e continua anche nella vita pratica di ciascuno.
Significati della nudità
Un breve elenco dei simboli legati alla nudità potrà bastare per iniziare. Sorprende constatare che, grosso modo, i significati “negativi” sono quelli oggettivi (l’impressione che dà la nudità passiva; ad es.: naufraghi), mentre i significati “positivi” sono quelli attribuiti, e dove più esplicitamente si vede la nudità usata come simbolo, cioè usata per trasmettere un significato o più significati (l’impressione che intenzionalmente viene associata alla nudità; ad es. putti, eroi)
Si noterà che spesso i termini sono antitetici:
semplicità
povertà
essenzialità
austerità
dignità
sicurezza di sé
volgarità
scandalo
erotismo
castità
umiliazione
sottomissione
eroismo
vergogna
innocenza
libertà
schiavitù
provocazione
ribellione
individualismo
ostentazione
alterità
alternativa
sincerità
pulizia
pazzia
solitudine
dolore
felicità
bellezza
salute
malattia
vigore
giovinezza
idealità
identità…
Con l’uso tutti questi significati costruiti sull’analogia coi fatti di vita o con la traduzione figurale/artistica si sono aggiunti al significato base, a volte trasferendosi, trasformandosi in esso. Vedi la Cappella Sistina: gli Ignudi di Michelangelo sono icone che rimandano alla vaghezza del tempo mitico/eroico, non hanno altra funzione che di riportarci a un tempo e a una condizione umana astratta, ancora indifferenziata e idilliaca, (sono tutti maschi), prima che fosse necessario un drappo a coprir le pudenda.
La nudità simbolo del peccato
Ma la metafora più potente e ancora produttiva, l’accostamento immediato, il rimando che la nostra cultura suggerisce come prevalente è quella che unisce nudità a peccato. E il peccato per antonomasia è quello originale, a motivo del quale i progenitori “si accorsero di essere nudi”. Questo “accorgersi” significa guardare con occhi diversi, con la coscienza che sa distinguere il bene dal male. E la nudità da allora in poi significherà il ricordo del peccato (vestigium delicti commissi), la presa di coscienza del male nell’uomo e nel mondo, la debolezza verso la tentazione, la proclività al peccato (e in particolare a quello che si commette con gli organi che ancor oggi inducono rossore e vergogna) e l’attenzione preventiva verso le situazioni che lo possono indurre e la loro completa esclusione e cancellazione; significherà l’accoglimento di un discrimine morale che distingue ciò che è bene da ciò che è male, l’elaborazione di un codice e di una censura, di un elenco di trasgressioni e prescrizioni, di una lista dei delitti e delle pene.
La fine del simbolo
Quando un simbolo non è più produttivo di nuovi significati rimane comunque presente nella cultura e nel modo di pensare di una società con la propria storia, i propri contenuti, le proprie connotazioni. Un esempio di questa dinamica sono tutti i capi di abbigliamento: sembra che la moda usi i parametri dell’estetica per attribuire significati diversi all’uso di forme, colori, lavorazioni, a seconda di come mostrano/nascondono parti del corpo. Mostrare l’ombelico non è più di moda, forse lo è di più mostrare una spalla con un vestito alla Tarzan o pantaloni col cavallo basso così che si veda l’elastico dei boxer firmati (mica quegli stracci comperati al mercato!) – la marca, appunto, cioè il contrassegno equivale al distintivo di un’affiliazione o appartenenza di classe cioè distintiva, di rango.
Quando, in una fase successiva, si arriva alla completa indifferenza di fronte a un qualsiasi simbolo, denudandolo di ogni significato aggiunto, quel simbolo diventa muto, esce dalla sfera simbolica e comunicativa, non interagisce più col pensiero, non viene più socializzato, utilizzato come veicolo di significati. Ad esempio, il fumare non è più uno status symbol, e sempre meno compare nei film e nella pubblicità.
Così potrebbe accadere anche per l’essere nudi. Che significato ha l’essere nudi in casa? Lo ha solo per il singolo. Quell’“essere nudi” acquista significato appena varca la soglia di casa, appena può trovare un “destinatario”, appena è messo nelle condizioni di comunicarsi, di circolare. Il costume, la tradizione, la “decenza” vigenti in una società intervengono allora fra il singolo-nudo e il singolo-che-vede, e difende quest’ultimo dall’indecenza, dalla tentazione, dal turbamento. Non importa se tali deterrenti siano stati introdotti innaturalmente, pretestuosamente o in ossequio a poteri più forti (e non troppo democratici): veri o falsi che siano, hanno tuttora il loro vigore; intervengono e incasellano il fatto, stabiliscono una graduatoria di gravità; insinuano il dubbio che qualcosa di pericoloso sia stato ben mimetizzato dalle menti astute e maliarde degli “sporcaccioni” e che il fine ultimo del mostrarsi nudo risieda in generiche e malcelate intenzioni: malsane, corruttrici, pericolose, delittuose.
Eppure, come molte cose hanno cessato di fare notizia, di destar meraviglia (come il re Faruk a Roma o il Marziano di Flaiano), anche la nudità pubblica potrebbe cessare di essere una “novità” che fa notizia. Certo che a quel punto, perdendo molto del suo significato (non del tutto chiaro persino a noi stessi), si potrebbe tornare indietro, e rimetterci i vestiti, perché lo star nudi non ha più senso, non ha più le caratteristiche del simbolo. E, senza forse, col nostro stile di vita stiamo lavorando affinché alla nudità come comportamento non sia associato più alcun significato, divenga muta, indifferente.
Rimarrebbe comunque l’aspetto ecologico-salutistico.
Dunque con la nudità trasmettiamo passivamente un qualche significato, che lo vogliamo oppure no; a seconda di questo significato scatta la reazione conseguente; ma non sappiamo quale sia questo significato; non sappiamo l’effetto che la nostra nudità farà sul “ pubblico”.
Può anche darsi che in quella determinata persona non faccia proprio nessun effetto.
Biglietto d’ingresso
Il desiderio di metterci nudi parte sì dal benessere fisico. Ma intuiamo che ci sia anche altro. E di importante. È a questo livello – molto personale – che la nudità ci funziona da simbolo, nel senso che continua a creare, a mostrarci nuove idee, nuove intuizioni, nuovi punti di vista. La nostra personale privata nudità ci parla di un’altra parte di noi. Nel metterci nudi partiamo in esplorazione. Non abbiamo indicazioni, non abbiamo traguardi, non ci sono mappe. Quel che siamo noi, nel nostro intimo, non è scritto nei libri. Nonostante siamo tutti umani. Ma i modi, i colori, i particolari, le rifiniture sono uniche e irripetibili.
Il gesto stesso di spogliarmi – proprio per quel che mi è “costato” arrivare sin lì, per quanto il desiderio nel frattempo mi ha cambiato – funziona da biglietto d’ingresso in me stesso. Il corpo senza più carature, pezzature, censure è simbolo di questa apertura. Parafrasando un versetto della Genesi posso dire: «Ho visto il mio corpo nudo e non ho avuto paura, non mi sono nascosto. Anzi!». Mi sono guardato per quanto mi consentono gli occhi dal capo, ed ho visto che questo corpo son io – contento di tenermi per quello che sono. Ho pensato il mio corpo senza peccato e di colpo qualcosa d’immane è crollato.
Indifferenza
Uno può pensare che tutto provenga dallo sdoganamento del sesso, che finalmente, liberando alla vista degli altri quella parte protetta da privacy, così delicata e sensibile, abbia smosso tutte le remore, i legacci, e che l’outing sia in realtà guidato freudianamente dal sesso. Non ho le competenze per poter rispondere. Vedo la cosa da un altro punto di vista. Il mettere alla luce anche le parti più private di me ha neutralizzato la loro eccezionalità, ha indifferenziato ogni zona del corpo, tanto la faccia, quanto le gambe, la schiena, la pancia, l’addome e il piccetto. Nella testa, anche quel che si fa col piccetto non è più una bischerata, non fa più eccezione, non è da prendere con le dovute maniere, con dei riti come fosse qualcosa di sacro. Non ho sentito scoppiarmi la testa al suono di trombe per la gran novità, ma dentro di me un muro è crollato, come sono crollate le mura di Gerico. Dopo esser crollato mi sono accorto che era un muro di altri, un muro che altri avevan costruito nella mia mente!
Il mio corpo nudo, l’esser giunto a indifferenziarlo – la volontà di indifferenziarlo e di tradurre questa decisione in un fatto compiuto, irreversibile – è la mia carta d’identità, la mia metà della moneta, la chiave per entrare nel mio “calderone”, sono io che accendo un fuoco, che lo faccio sobbollire portando a galla bolle sulfuree di un magma vitale e assolutamente individuale che mi fa crescer ventose da geco con le quali sto saldo alla vita, al mio tempo, al mio fare, a chi sono io. Un ventaglio di tante cose mi passan davanti una via l’altra in cascata. Sono ammirato, sono lieve, il corpo mi è lieve, il respiro mi tonifica il busto dalle pelvi al torace, lo riempie di forza e freschezza, di ossigeno ed elio… di helios, che per i Greci era il sole.
Ho dei pantaloncini blu, mi osservo quando me li sfilo dai piedi, prima l’uno e poi l’altro, me li tengo con la maglietta nel pugno: rimaner nudo è come entrare, varcare una soglia. Le viti sono le stesse, ma ora pare mi parlino, il cielo è azzurro, ma lo sembra di più, la luce è come un’altra materia, di tipo diverso, aspettassi un momento, sentirei scattare quantisticamente qualcosa, potrei passare attraverso il verde dei tralci, tra atomo e atomo, dal rado che siamo, espansi che siamo. Nella mente mi passa una brezza di fitti pensieri, nessuno si ferma; mi sembra di andare con essi, di vedere più nitido. Come un agrimensore che dopo un sopralluogo si fa nella mente un quadro più preciso del campo.
La notte di #VivAlpe 2017
Tra disattenzioni, malanni, impegni di lavoro e altre occupazioni non meglio definite alla fine siamo rimasti solo in due, ma l’escursione in notturna è stata comunque fatta e, penso, con soddisfazione anche da parte di chi mi ha accompagnato.
Nel pieno della notte io e Angelo ci siamo incamminati dal parcheggio appena fuori il paese. Quasi subito un grosso ratto esce da un campo incolto e si blocca in mezzo alla strada davanti a noi, resta immobile per qualche decina di secondi poi si gira su se stesso e ritorna da dov’era venuto. Riprendiamo il cammino anche noi, con calma risaliamo il ripido asfalto e arriviamo all’isolato e solitario parcheggio del Pian delle Castagne. Ancora qualche minuto su strada sterrata ed eccoci al Santuario della Madonna delle Fontane, ultimo segno del centro abitato che ci siamo lasciati alle spalle.
Inizia il sentiero e si entra nel bosco, la luce delle frontali ci precede lungo il cammino illuminando i numerosi neri insetti che sfruttano la notte per uscire dalle loro tane. Ogni tanto anche il capo di qualche fiore si mostra a noi dando una nota di colore al nero costante del bosco notturno. L’amico è un poco preoccupato dalla possibilità di incontrare dei cinghiali, io ormai ci sono abituato alla notte e… ai cinghiali, lo tranquillizzo e procediamo senz’intoppo.
La salita non è ripida ma le mie gambe allenate dal tanto allenamento che sto facendo per TappaUnica3V hanno preso un passo troppo sostenuto e sento che il respiro del mio compagno di cammino va facendosi troppo irregolare e veloce, rallento al limite del mio equilibrio e pian piano le cose migliorano. Tra le fronde degli alberi s’intravvede un poco di cielo, stiamo per arrivare in cresta. Pochi minuti ed eccoci sul crinale, la vista si apre e possiamo individuare tutte le montagne che ci circondano, in basso le luci di Nave e di Caino, più lontano, dietro la sella di San Vito, quelle di Rezzato, più a destra quelle di Brescia.
Dopo una breve doverosa sosta contemplativa ripartiamo, oltrepassando alcuni capanni di caccia ci alziamo verso la meta che già s’intravvede alla nostra sinistra. Volevo arrivarci per una variante che evita una ripida e scabrosa discesa, al bivio, non conoscendola, sbaglio e seguo la segnaletica. Me ne accorgo poco dopo dato che stiamo procedendo su terreno assai ripido anziché a mezza costa, ormai è fatta e proseguiamo per la strada presa, superiamo la ripida discesa e con l’ultima salitella eccoci, con circa trenta minuti di anticipo sulla tabella di marcia, all’Eremo di San Giorgio.
Tolti gli zaini ci godiamo la notte e il panorama, in lontananza le luce di Bardolino e Garda illuminano impercettibilmente la superficie del lago di Garda, lago invero invisibile ma che io posso facilmente individuare conoscendo benissimo questo paesaggio. La luna si libera delle nuvole e mostra orgogliosa il suo sorridente viso. Ho qui previsto una lunga sosta pertanto mi rivesto e consiglio all’amico di fare altrettanto, se il calore del cammino ci ha consentito di stare a nudo, stando fermi la temperatura diventa meno confortevole. Dopo esserci reidratati, ci accomodiamo su di una panchina, mangiamo qualcosa, ci scambiamo due chiacchiere per poi abbandonarci ad un leggero dormiveglia. I rumori della valle giungono quassù come se fossero a due passi: il brusio delle auto che salgono verso il Colle di Sant’Eusebio o da questo discendono verso Caino, il rombo di una moto, il ritmico tum tum cardiaco di una discoteca, persino la voce nitida di una donna.
Ore due della notte, il lago s’è coperto d’una fitta foschia, il freddo s’è fatto più intenso, è ora di ripartire. Vestiti percorriamo il tratto di crinale che porta verso Conche, una fredda brezza lo percorre e i nostri corpi stentano a riprendere calore. Arriviamo al bivio con il sentiero che scende verso Caino e che dobbiamo prendere, siamo da poco rientrati nel bosco, protetti dalla brezza possiamo indossare la veste della natura, recuperare lo stato di piena simbiosi con l’ambiente che ci circonda e reimmergerci nelle sensazioni che solo la nuda pelle può donarci.
Rieccoci alla base, alle prime case del paese, all’auto. Sono le quattro del mattino, in rispettoso silenzio riponiamo gli zaini nel baule della vettura, cambiamo le scarpe e, arricchiti da questa nuova esperienza, ritemprati da queste poche ore di piena natura, ci avviamo verso le nostre case.
Grazie Angelo, alla prossima!
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